Il testo raccoglie, nel centocinquantesimo della morte di Arthur Schopenhauer (avvenuta a Francoforte il 21 settembre 1860), cinque saggi che si accostano al suo pensiero a partire da una pluralità sì eterogenea ma complementare di problematiche. Il lavoro di Michael Eckert, professore di teologia fondamentale presso la Facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Tubinga in Germania, affronta il nesso tra estetica, metafisica e mistica nel pensiero di Schopenhauer quale possibile punto d’incontro tra prospettive religiose e culturali differenti: il cristianesimo e l’Europa da un lato, il buddismo e l’Oriente dall’altro. La contemplazione estetica schopenhauerianamente intesa appare, infatti, come l’occasione per possibili “sconfinamenti” (Übergänge) verso una condizione di liberazione dalla voluntas (e quindi di affrancamento dai dolori e dalle angosce della vita) che, pur non fuoriuscendo dall’immanenza, possono rappresentare dei lampi anticipatori mistico-estetici di una dimensione dell’esistere strutturalmente “altra” da quella (tragica) in cui ci siamo ritrovati a vivere. Il saggio di Anna Valentinetti si sofferma sui due volti della filosofia di Schopenhauer. Questi, negli stessi anni in cui veniva costruendo il suo sistema metafisico (poi sviluppato nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione) che avrebbe dovuto consentire di comprendere “teoreticamente” la natura del mondo in cui viviamo, andava al contempo raccogliendo una serie di massime (poi ordinate nei suoi celeberrimi Aforismi per una vita saggia) che avrebbero dovuto consentire all’uomo comune (incapace di affrancarsi dal potere della volontà) di vivere il meno infelicemente possibile. Il saggio di Diego Giordano, che è stato ricercatore presso il “Søren Kierkegaard Forskningscenter” di Copenhagen, è un resoconto preciso e ragionato circa la ricezione kierkegaardiana del pensiero di Schopenhauer nei suoi ultimi due anni di vita. Le annotazioni contenute nei Papirer mostrano come Kierkegaard pensasse di aver trovato nel filosofo tedesco (nonostante tutte le contraddizioni del suo stile di vita) una sorta di alleato ideale nella polemica contro la cristianità stabilita. L’etica schopenhaueriana della sofferenza, dell’ascesi e della mortificazione gli appariva un ottimo antidoto (da somministrare ogni giorno a piccole dose agli studenti di teologia) contro l’eudaimonismo, l’ottimismo e l’epicureismo dominanti nella società danese del suo tempo, ormai solo apparentemente cristiana. I due saggi di Roberto Garaventa, infine, si soffermano sull’ambiguità del gesto suicidale e sull’equivocità del concetto di nulla in Schopenhauer. Da un lato, egli considera irragionevole il suicidio non perché sia contrario alla legge morale, ai doveri sociali o alla volontà divina, ma perché è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita. Se è vero che solo la noluntas (la rinuncia a volere) consente di raggiungere quella condizione di quiete e tranquillità che i buddisti chiamano “nirvana”, il suicida - che distrugge il suo corpo proprio perché vorrebbe essere felice, ma non ci riesce - si lascia sfuggire in modo definitivo questa possibilità. Anzi, a trionfare in lui è in ultima analisi proprio la volontà, che preferisce distruggere il corpo dell’individuo, piuttosto che piegarsi di fronte all’esperienza del dolore. Dall’altro, nel suo capolavoro Schopenhauer sviluppa una me-ontologia in cui ritroviamo tre classiche accezioni del termine “nulla”: il “nulla negativo”, riferito erroneamente, dall’individuo schiavo della voluntas, allo stato di beatitudine e di pace della noluntas; il “nulla qualitativo”, riferito, dall’individuo che ha negato e soppresso la volontà, al mondo della voluntas; e il “nulla religioso”, che designa la condizione impensabile, ineffabile e inesprimibile della negazione della volontà: una condizione mistica di beatitudine e di pace.

Tebe dalle cento porte. Studi su Arthur Schopenhauer

GARAVENTA, Roberto
2010-01-01

Abstract

Il testo raccoglie, nel centocinquantesimo della morte di Arthur Schopenhauer (avvenuta a Francoforte il 21 settembre 1860), cinque saggi che si accostano al suo pensiero a partire da una pluralità sì eterogenea ma complementare di problematiche. Il lavoro di Michael Eckert, professore di teologia fondamentale presso la Facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Tubinga in Germania, affronta il nesso tra estetica, metafisica e mistica nel pensiero di Schopenhauer quale possibile punto d’incontro tra prospettive religiose e culturali differenti: il cristianesimo e l’Europa da un lato, il buddismo e l’Oriente dall’altro. La contemplazione estetica schopenhauerianamente intesa appare, infatti, come l’occasione per possibili “sconfinamenti” (Übergänge) verso una condizione di liberazione dalla voluntas (e quindi di affrancamento dai dolori e dalle angosce della vita) che, pur non fuoriuscendo dall’immanenza, possono rappresentare dei lampi anticipatori mistico-estetici di una dimensione dell’esistere strutturalmente “altra” da quella (tragica) in cui ci siamo ritrovati a vivere. Il saggio di Anna Valentinetti si sofferma sui due volti della filosofia di Schopenhauer. Questi, negli stessi anni in cui veniva costruendo il suo sistema metafisico (poi sviluppato nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione) che avrebbe dovuto consentire di comprendere “teoreticamente” la natura del mondo in cui viviamo, andava al contempo raccogliendo una serie di massime (poi ordinate nei suoi celeberrimi Aforismi per una vita saggia) che avrebbero dovuto consentire all’uomo comune (incapace di affrancarsi dal potere della volontà) di vivere il meno infelicemente possibile. Il saggio di Diego Giordano, che è stato ricercatore presso il “Søren Kierkegaard Forskningscenter” di Copenhagen, è un resoconto preciso e ragionato circa la ricezione kierkegaardiana del pensiero di Schopenhauer nei suoi ultimi due anni di vita. Le annotazioni contenute nei Papirer mostrano come Kierkegaard pensasse di aver trovato nel filosofo tedesco (nonostante tutte le contraddizioni del suo stile di vita) una sorta di alleato ideale nella polemica contro la cristianità stabilita. L’etica schopenhaueriana della sofferenza, dell’ascesi e della mortificazione gli appariva un ottimo antidoto (da somministrare ogni giorno a piccole dose agli studenti di teologia) contro l’eudaimonismo, l’ottimismo e l’epicureismo dominanti nella società danese del suo tempo, ormai solo apparentemente cristiana. I due saggi di Roberto Garaventa, infine, si soffermano sull’ambiguità del gesto suicidale e sull’equivocità del concetto di nulla in Schopenhauer. Da un lato, egli considera irragionevole il suicidio non perché sia contrario alla legge morale, ai doveri sociali o alla volontà divina, ma perché è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita. Se è vero che solo la noluntas (la rinuncia a volere) consente di raggiungere quella condizione di quiete e tranquillità che i buddisti chiamano “nirvana”, il suicida - che distrugge il suo corpo proprio perché vorrebbe essere felice, ma non ci riesce - si lascia sfuggire in modo definitivo questa possibilità. Anzi, a trionfare in lui è in ultima analisi proprio la volontà, che preferisce distruggere il corpo dell’individuo, piuttosto che piegarsi di fronte all’esperienza del dolore. Dall’altro, nel suo capolavoro Schopenhauer sviluppa una me-ontologia in cui ritroviamo tre classiche accezioni del termine “nulla”: il “nulla negativo”, riferito erroneamente, dall’individuo schiavo della voluntas, allo stato di beatitudine e di pace della noluntas; il “nulla qualitativo”, riferito, dall’individuo che ha negato e soppresso la volontà, al mondo della voluntas; e il “nulla religioso”, che designa la condizione impensabile, ineffabile e inesprimibile della negazione della volontà: una condizione mistica di beatitudine e di pace.
2010
Area 11
9788854834934
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11564/174439
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