Questo contributo intende evidenziare non solo come il gesto suicidale (che ha pur sempre avuto in ogni tempo i suoi detrattori e i suoi difensori) sia stato valutato in maniera profondamente diversa nelle differenti epoche della storia dell’occidente (antichità classica, cristianità medievale, rinascimento, illuminismo, contemporaneità), ma anche come l’attenzione che le scienze umane (sociologia e psicologia in particolare) hanno rivolto a questo fenomeno nel XX secolo (con l’evidenziazione che ne è seguita dei fattori sociali e psichici che lo possono, anche se non necessariamente determinare, per lo meno condizionare) abbia prodotto una svolta decisiva e radicale nel modo di accostarsi ad esso, consentendo di correggere l’idea (di matrice stoica, ma fatta poi propria dal pensiero cristiano) del suicidio quale atto razionalmente ponderato, liberamente voluto e, quindi, peccaminoso (per una morale di matrice cristiana) e criminale (per una legislazione da quella influenzata), di cui la concezione (già presente nell’antichità classica, ma riemersa prepotentemente a partire dal rinascimento) del suicidio come di un gesto sostanzialmente determinato da un quadro temperamentale o caratteriale patologico ha sempre costituito soltanto il contraltare. E in effetti, a un’analisi attenta e partecipata della complessione del suicida, l’idea del suicidio quale atto autodistruttivo liberamente e coscientemente compiuto dopo lucida valutazione dei pro e dei contro appare decisamente astratta, soprattutto nella misura in cui, rifiutandosi per principio di guardare nell’intimo della persona, sorvola sulla tragicità della sua condizione esistenziale. Solo un approccio capace di tener conto del complesso groviglio di fattori che stanno alla base del gesto autodistruttivo e che lo rendono un evento estremamente stratificato, nonché un enigma difficilmente risolvibile, può riuscire a far riscoprire il dolore che sta dietro a tale gesto e a far intuire la disperazione che vi inerisce, inducendo a un atteggiamento più ricco di compassione nei confronti del suicida quale era quello dei greci, ma pure quello degli scrittori biblici. Infatti, pur conservando (al di là di tutti i possibili condizionamenti) un momento di libertà e incondizionatezza, il suicidio, più che un gesto di rifiuto innaturale del dono della vita, di disprezzo colpevole dei vincoli familiari e dei doveri societari o di ribellione peccaminosa e demoniaca contro il Dio provvidente, è la risposta estrema, disperata, fortemente condizionata, se non per molti versi addirittura coatta, a una condizione di sofferenza e di stanchezza, d’incomunicabilità e di solitudine, di colpa e di vergogna, avvertita come senza rimedio.

Sofferenza e suicidio

Garaventa Roberto
2018-01-01

Abstract

Questo contributo intende evidenziare non solo come il gesto suicidale (che ha pur sempre avuto in ogni tempo i suoi detrattori e i suoi difensori) sia stato valutato in maniera profondamente diversa nelle differenti epoche della storia dell’occidente (antichità classica, cristianità medievale, rinascimento, illuminismo, contemporaneità), ma anche come l’attenzione che le scienze umane (sociologia e psicologia in particolare) hanno rivolto a questo fenomeno nel XX secolo (con l’evidenziazione che ne è seguita dei fattori sociali e psichici che lo possono, anche se non necessariamente determinare, per lo meno condizionare) abbia prodotto una svolta decisiva e radicale nel modo di accostarsi ad esso, consentendo di correggere l’idea (di matrice stoica, ma fatta poi propria dal pensiero cristiano) del suicidio quale atto razionalmente ponderato, liberamente voluto e, quindi, peccaminoso (per una morale di matrice cristiana) e criminale (per una legislazione da quella influenzata), di cui la concezione (già presente nell’antichità classica, ma riemersa prepotentemente a partire dal rinascimento) del suicidio come di un gesto sostanzialmente determinato da un quadro temperamentale o caratteriale patologico ha sempre costituito soltanto il contraltare. E in effetti, a un’analisi attenta e partecipata della complessione del suicida, l’idea del suicidio quale atto autodistruttivo liberamente e coscientemente compiuto dopo lucida valutazione dei pro e dei contro appare decisamente astratta, soprattutto nella misura in cui, rifiutandosi per principio di guardare nell’intimo della persona, sorvola sulla tragicità della sua condizione esistenziale. Solo un approccio capace di tener conto del complesso groviglio di fattori che stanno alla base del gesto autodistruttivo e che lo rendono un evento estremamente stratificato, nonché un enigma difficilmente risolvibile, può riuscire a far riscoprire il dolore che sta dietro a tale gesto e a far intuire la disperazione che vi inerisce, inducendo a un atteggiamento più ricco di compassione nei confronti del suicida quale era quello dei greci, ma pure quello degli scrittori biblici. Infatti, pur conservando (al di là di tutti i possibili condizionamenti) un momento di libertà e incondizionatezza, il suicidio, più che un gesto di rifiuto innaturale del dono della vita, di disprezzo colpevole dei vincoli familiari e dei doveri societari o di ribellione peccaminosa e demoniaca contro il Dio provvidente, è la risposta estrema, disperata, fortemente condizionata, se non per molti versi addirittura coatta, a una condizione di sofferenza e di stanchezza, d’incomunicabilità e di solitudine, di colpa e di vergogna, avvertita come senza rimedio.
2018
978-88-255-1294-6
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