I documentari di Pier Paolo Pasolini costituiscono per lo studioso un corpus compatto, che manifesta una decisa inclinazione sperimentale, mettendo in gioco in forma esemplare i concetti di autorialità, di impegno civile e di esplorazione antropologica. Lo sguardo nomadico dei documentari pasoliniani assume con forza l’esperienzialità come come appassionata implicazione nell’esistente e nell’esistenza, come percorso, processo, work in progress che investe il senso stesso del vedere e del conoscere attraverso il cinema. La sperimentazione che segna questi documentari è dunque ricerca inesausta di senso e di nuovi materiali espressivi, e fa emergere distintamente la portata di una più complessiva ricerca epistemologica, che appare all’insegna di un gesto radicale: l’impegno della/nella conoscenza continua di sé e del mondo, che è al contempo inesauribile (ri-)scoperta di sé nel mondo. Questo gesto, così inconfondibilmente moderno, innerva il sentimento e la disposizione più autentica e libera della visione pasoliniana, dove autenticità e libertà sgorgano dalla consapevolezza del proprio interpretare, creare, fare, agire dentro la materia più viva delle cose, dentro, appunto, “i fenomeni del mondo”. In altri termini, è la fenomenologia dell’esistente a sprigionare, attraverso lo sguardo “pronto e disarmato” (Zavattini) del cineasta, fragrantemente incarnato nella materia e nelle sue forme, e perciò non privata, e tanto meno intimista, ma radicalmente estetica, pensabile solo come fatto estetico, che per Pasolini significa dell’Uomo, della sua Storia e dei suoi Miti. La visione cinematografica pasoliniana è il fatto estetico che ha il compito, nell’orizzonte realizzativo e (auto-)riflessivo del cineasta-poeta, di assumersi una responsabilità che, proprio perché è estetica nel senso appena detto, si fa anche etica e civile. Tale responsabilità è: preservare le cose dalla loro imminente sparizione. E questa sorta di utopia messianica è coerentemente e “selvaggiamente” perseguita da Pasolini, “in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. Una forza che è nomadica per antonomasia, che scatena lo sdegno pasoliniano contro “l’irresponsabilità storica” della borghesia italiana, nel saggio documentaristico di montaggio La rabbia; ma che guida anche, in forma tutt’altro che conservatrice, l’inchiesta peninsulare sulla sessualità dei propri connazionali in Comizi d’amore. Una forza capace di convertire in fulgida ispirazione antiretorica la deludente ricerca di un “mondo biblico, arcaico” in Terrasanta (Sopraluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo); di mobilitare attenzioni e speranze, nell’entusiasmo terzomondista, verso quei paesi che stavano elaborando, negli anni ’60, una propria coscienza politica e forme proprie di gestione democratica (Appunti per un film sull’India). Una forza, ancora, che si sprigiona nell’empatia istintiva e primigenia per il continente nero (Appunti per un’Orestiade africana); o nell’accorato appello all’UNESCO per salvare le yemenite mura di Sana’a come prezioso bene del paese e dell’umanità intera (Le mura di Sana’a). In definitiva, dunque, una forza scagliata contro un presente abbrutito dallo sviluppo selvaggio del capitalismo, per salvare il futuro. E l’impegno civile e politico di Pasolini in una rivolta radicale contro la contagiosa “mutazione antropologica” in opera come corollario culturale del neocapitalismo. A distanza di tempo possiamo dire che Pasolini aveva colto certe logiche perverse dell’economia e della politica neocapitaliste e liberiste, intuendone con lucida e drammatica lungimiranza gli effetti dilaganti e più devastanti: il blindarsi dell’Occidente di fronte all’emergenza-povertà di ben oltre metà del pianeta, la degradazione delle periferie urbane in luoghi di odio e di razzismo contro il diverso. Ma è proprio lo sguardo altro, lo sguardo del diverso ciò che più conta per il cineasta, e a quello egli si rivolge come a una risorsa da investire per un futuro differente: il passato, che tenta febbrilmente di rintracciare, è dunque la sua arma critica contro gli aspetti deteriori di una contemporaneità che non risponde ad alcun progetto e si sviluppa solo attraverso un meccanismo di oblio della propria cultura che non è difficile identificare come una vera e propria rimozione: la rimozione che una classe borghese improvvisata fa nei paesi in via di sviluppo, Italia in primis, delle proprie origini, considerate vergognose e impresentabili. E’ di tutto questo che parlano, in forme diverse, i due documentari che ho scelto come esempi e su cui mi soffermerò: Sopraluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, girato nell'estate del 1963, e Appunti per un film sull’India, girato nell'inverno del 1967- ‘68.
Zwischen Experiment und Nomadentum. Pasolini als Dokumentarfilmer in Indien und Palästina
TRIVELLI, Anita
2008-01-01
Abstract
I documentari di Pier Paolo Pasolini costituiscono per lo studioso un corpus compatto, che manifesta una decisa inclinazione sperimentale, mettendo in gioco in forma esemplare i concetti di autorialità, di impegno civile e di esplorazione antropologica. Lo sguardo nomadico dei documentari pasoliniani assume con forza l’esperienzialità come come appassionata implicazione nell’esistente e nell’esistenza, come percorso, processo, work in progress che investe il senso stesso del vedere e del conoscere attraverso il cinema. La sperimentazione che segna questi documentari è dunque ricerca inesausta di senso e di nuovi materiali espressivi, e fa emergere distintamente la portata di una più complessiva ricerca epistemologica, che appare all’insegna di un gesto radicale: l’impegno della/nella conoscenza continua di sé e del mondo, che è al contempo inesauribile (ri-)scoperta di sé nel mondo. Questo gesto, così inconfondibilmente moderno, innerva il sentimento e la disposizione più autentica e libera della visione pasoliniana, dove autenticità e libertà sgorgano dalla consapevolezza del proprio interpretare, creare, fare, agire dentro la materia più viva delle cose, dentro, appunto, “i fenomeni del mondo”. In altri termini, è la fenomenologia dell’esistente a sprigionare, attraverso lo sguardo “pronto e disarmato” (Zavattini) del cineasta, fragrantemente incarnato nella materia e nelle sue forme, e perciò non privata, e tanto meno intimista, ma radicalmente estetica, pensabile solo come fatto estetico, che per Pasolini significa dell’Uomo, della sua Storia e dei suoi Miti. La visione cinematografica pasoliniana è il fatto estetico che ha il compito, nell’orizzonte realizzativo e (auto-)riflessivo del cineasta-poeta, di assumersi una responsabilità che, proprio perché è estetica nel senso appena detto, si fa anche etica e civile. Tale responsabilità è: preservare le cose dalla loro imminente sparizione. E questa sorta di utopia messianica è coerentemente e “selvaggiamente” perseguita da Pasolini, “in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. Una forza che è nomadica per antonomasia, che scatena lo sdegno pasoliniano contro “l’irresponsabilità storica” della borghesia italiana, nel saggio documentaristico di montaggio La rabbia; ma che guida anche, in forma tutt’altro che conservatrice, l’inchiesta peninsulare sulla sessualità dei propri connazionali in Comizi d’amore. Una forza capace di convertire in fulgida ispirazione antiretorica la deludente ricerca di un “mondo biblico, arcaico” in Terrasanta (Sopraluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo); di mobilitare attenzioni e speranze, nell’entusiasmo terzomondista, verso quei paesi che stavano elaborando, negli anni ’60, una propria coscienza politica e forme proprie di gestione democratica (Appunti per un film sull’India). Una forza, ancora, che si sprigiona nell’empatia istintiva e primigenia per il continente nero (Appunti per un’Orestiade africana); o nell’accorato appello all’UNESCO per salvare le yemenite mura di Sana’a come prezioso bene del paese e dell’umanità intera (Le mura di Sana’a). In definitiva, dunque, una forza scagliata contro un presente abbrutito dallo sviluppo selvaggio del capitalismo, per salvare il futuro. E l’impegno civile e politico di Pasolini in una rivolta radicale contro la contagiosa “mutazione antropologica” in opera come corollario culturale del neocapitalismo. A distanza di tempo possiamo dire che Pasolini aveva colto certe logiche perverse dell’economia e della politica neocapitaliste e liberiste, intuendone con lucida e drammatica lungimiranza gli effetti dilaganti e più devastanti: il blindarsi dell’Occidente di fronte all’emergenza-povertà di ben oltre metà del pianeta, la degradazione delle periferie urbane in luoghi di odio e di razzismo contro il diverso. Ma è proprio lo sguardo altro, lo sguardo del diverso ciò che più conta per il cineasta, e a quello egli si rivolge come a una risorsa da investire per un futuro differente: il passato, che tenta febbrilmente di rintracciare, è dunque la sua arma critica contro gli aspetti deteriori di una contemporaneità che non risponde ad alcun progetto e si sviluppa solo attraverso un meccanismo di oblio della propria cultura che non è difficile identificare come una vera e propria rimozione: la rimozione che una classe borghese improvvisata fa nei paesi in via di sviluppo, Italia in primis, delle proprie origini, considerate vergognose e impresentabili. E’ di tutto questo che parlano, in forme diverse, i due documentari che ho scelto come esempi e su cui mi soffermerò: Sopraluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, girato nell'estate del 1963, e Appunti per un film sull’India, girato nell'inverno del 1967- ‘68.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.