La costellazione di opere e di autori analizzati nel presente volume restituisce un discorso su testi e figure dell’agone letterario medionovecentesco che ben rappresentano, per la loro libertà e indipendenza, le punte estreme delle poetiche più implicate nell’opera di ridefinizione del ruolo dell’intellettuale tra lo sfacelo dei regimi totalitari e le nuove responsabilità che investono la scrittura negli anni del secondo dopoguerra. Esiliatosi per sfuggire alla condizione di sudditanza alle coercizioni esercitate a diverso titolo dal potere nelle sue varie forme di incarnazione storica, lo scrittore conosce per scelta o per costrizione l’esperienza del “dispatrio” non solo quale segno di estraniazione e perdita ma anche come desiderio d’autonomia, ricerca, viaggio; egli si trova a vivere il conflitto fra i valori dell’arte e la necessità di un impegno diretto volto a modificare il reale grazie agli “strumenti umani” della cultura. Fortissima d’altro canto, specie negli spiriti più introspettivi come Dessí e Quarantotti Gambini, agisce la spinta verso un iperuranio diversamente qualificato dalla critica (cittadella ideale, montagna incantata, Eden dei giorni infantili, città del sole o torre d’avorio) ma rispondente a bisogni profondi. Per autori come Fausta Cialente o Luigi Meneghello, tagliare il nodo viscerale dell’appartenenza a una heimat geografico-spirituale assume allora nell’età in cui si stringono i legami, i patti di sangue di vecchi e nuovi nazionalismi, la valenza liberatoria di una fuga e di una riperimetrazione degli spazi del “mestiere” di scrittore.
L'esilio e L'attesa. Scritture del dispatrio da Fausta Cialente a Luigi Meneghello
GIALLORETO, Andrea
2011-01-01
Abstract
La costellazione di opere e di autori analizzati nel presente volume restituisce un discorso su testi e figure dell’agone letterario medionovecentesco che ben rappresentano, per la loro libertà e indipendenza, le punte estreme delle poetiche più implicate nell’opera di ridefinizione del ruolo dell’intellettuale tra lo sfacelo dei regimi totalitari e le nuove responsabilità che investono la scrittura negli anni del secondo dopoguerra. Esiliatosi per sfuggire alla condizione di sudditanza alle coercizioni esercitate a diverso titolo dal potere nelle sue varie forme di incarnazione storica, lo scrittore conosce per scelta o per costrizione l’esperienza del “dispatrio” non solo quale segno di estraniazione e perdita ma anche come desiderio d’autonomia, ricerca, viaggio; egli si trova a vivere il conflitto fra i valori dell’arte e la necessità di un impegno diretto volto a modificare il reale grazie agli “strumenti umani” della cultura. Fortissima d’altro canto, specie negli spiriti più introspettivi come Dessí e Quarantotti Gambini, agisce la spinta verso un iperuranio diversamente qualificato dalla critica (cittadella ideale, montagna incantata, Eden dei giorni infantili, città del sole o torre d’avorio) ma rispondente a bisogni profondi. Per autori come Fausta Cialente o Luigi Meneghello, tagliare il nodo viscerale dell’appartenenza a una heimat geografico-spirituale assume allora nell’età in cui si stringono i legami, i patti di sangue di vecchi e nuovi nazionalismi, la valenza liberatoria di una fuga e di una riperimetrazione degli spazi del “mestiere” di scrittore.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.