La finalità ultima dell’impresa è rappresentata dalla massimizzazione del suo valore di mercato, cioè dalla creazione di valore per gli shareholders e per gli altri stakeholders che influenzano le performance delle sue attività. (Masera, Mazzoni 2006). La creazione del valore è determinata dall’attrattività del settore ( o da parti di esso) dove opera o intende operare l’impresa e dalla sua posizione competitiva relativa nel settore medesimo (Porter 1980, 1985; Grant 2005). I vantaggi competitivi dell’impresa e delle relative business unit (sbu) si fondano sullo stock di risorse e competenze critiche (di valore) disponibili all’interno e all’esterno sulle quali esercita il controllo. La crescita dell’impresa si basa sulle scelte strategiche inerenti all’individuazione del limite del confine efficiente verticale e orizzontale (Besanko, Dranove, Shanley 2000; Collis, Montgomery 1997). La scelta del confine verticale si concretizza nell’integrazione verticale, ed è condizionata dai costi di transazione e dal costo di produzione nelle alternative make or buy. La scelta del confine orizzontale, invece, si basa sulla crescita nell’ambito del medesimo settore (o parte di esso), o in settori diversi, attraverso le strategie di concentrazione e di diversificazione (correlata o conglomerale), sostenute dalle opportunità di conseguire economie di scala e di apprendimento, ed economie di scopo. L’impresa tende a svilupparsi nel medesimo settore (o nelle medesime SBU)fin quando non raggiunge il limite del confine efficiente, ovvero quando declina la domanda nel settore in cui opera o si raggiungono i limiti dimensionali imposti da provvedimenti regolatori, o comunque quando non esistono più le condizioni o le potenzialità di creazione del valore. Una volta superati tali limiti, l’impresa tende a valutare le opportunità di crescita in altri settori (o parti del medesimo settore) correlati o non correlati (Collis, Montgomery 1997, Grant 2003). Con la crescita diversificata in modo correlato, ciascuna sbu (comprese quelle acquisite) possono assimilare altre fonti di vantaggio competitivo, derivanti dalle interrelazioni sinergiche (vantaggi parentali) (Porter 1985; Donna 2003; Campbell, Good, Alexander 1995). Nell’ultimo decennio si è consolidata la tendenza delle imprese a riesaminare criticamente l’orientamento strategico della diversificazione, sospinta dall’obiettivo ultimo di creazione di valore per gli azionisti. Questa revisione critica della struttura strategica - ovvero dell’insieme delle strategic business units (SBU) in cui opera l’impresa, considerate nei loro intrinseci fattori competitivi, e nei loro reciproci legami potenzialmente capaci di creare sinergie - ha originato: Un diffuso processo di riduzione dell’estensione della diversificazione, con la rifocalizzazione sul core business, eliminando gli anelli periferici della struttura strategica (Collis, Montgomery, 1997). L’allargamento del concetto di core business al fine di ricomprendere quelle SBU intensamente correlate che beneficiano di fonti comuni di vantaggio competitivo. Fenomeni di concentrazione sul core business per soddisfare l’obiettivo di crescita del valore dell’impresa, laddove l’eccessiva diversificazione ha prodotto distruzione di valore (Donna, 2003). In un’impresa multibusiness il vantaggio competitivo di una SBU deriva dalla combinazione dei suoi specifici fattori competitivi con quelli che derivano dalle interrelazioni con le altre SBU dell’impresa. L’impresa multibusiness tende dunque a svilupparsi attorno alla possibilità di “trasferire” un vantaggio competitivo ritenuto versatile, difficilmente imitabile dai concorrenti e posseduto dal core business, alle altre SBU della medesima impresa. Gran parte delle operazioni di acquisizione di nuove SBU si fonda sul potenziale trasferimento di fonti di vantaggio competitivo dell’impresa alle SBU acquisite (Gros Pietro, 2003; Grant, 2003). D’altro canto le operazioni di cessione si fondano su una logica speculare a quella dell’acquisizione. Vengono cedute le SBU che non beneficiano, nelle specifiche condizioni, del potenziale di creazione del valore derivante dalle sinergie con le altre SBU. In tali casi le SBU tendono a migrare verso quelle imprese che sono potenzialmente in grado di creare valore su di esse mediante la condivisione dei vantaggi competitivi posseduti. Non è sufficiente conseguire l’eccellenza nei parametri che esprimono la creazione del valore, è necessario piuttosto che tali parametri siano positivamente valutati dai mercati finanziari in termini di aspettative di creazione di valore nel futuro (Gros Pietro, 2003). “Ogni giorno un milione di soggetti esprimono un giudizio sul nostro operato decidendo di continuare a tenere o a vendere le azioni della nostra impresa”, così si esprimeva il CEO di una grande impresa quotata in borsa durante gli incontri periodici con i dirigenti. I mercati, tuttavia, sono orientati dalle opinioni degli analisti finanziari che producono ricerche e valutazioni sull’andamento dei settori e delle singole imprese per conto delle grandi banche d’affari. Le previsioni di budget, i piani industriali e i singoli progetti strategici vengono attentamente valutati e rettificati negli indicatori fondamentali che esprimono il loro potenziale di creazione del valore. L’impresa eccessivamente diversificata viene guardata con sospetto dai mercati finanziari nella sua capacità di creare valore per gli azionisti, per l’incerta valutazione dell’attrattività dei settori, nei quali si collocano le SBU diversificate, per la difficoltà ad esprimere la varietà delle competenze sottostanti alle diverse SBU della struttura strategica, per la complessità dei processi di trasferimento delle fonti di vantaggio competitivo dal core business alle SBU diversificate, sia quelle che possono condurre al conseguimento di economie di scopo, sia quelle fondate sul trasferimento di competenze rilevanti (Grant, 2003). In sintesi, la crisi di molte imprese diversificate nella loro capacità di creare valore appare dovuta: 1. All’incerta valutazione dell’attrattività dei business diversificati; 2. Al prezzo d’ingresso in nuovi business, superiore a quanto consentito dalla loro redditività, sostenuto dalla prospettiva del suo miglioramento attraverso lo sfruttamento, in termini di sinergie, delle potenziali interrelazioni con il core business; 3. Alla difficoltà o spesso all’impossibilità di realizzare le potenziali sinergie, sia per la complessità dei necessari processi di integrazione, sia per l’erronea valutazione del potenziale sinergico delle interdipendenze tangibili e del patrimonio strategico di competenze (Fontana, Caroli, 2005; Donna, 2003; Porter, 1985); 4. Alla crescita della complessità organizzativa, determinata dall’estensione della diversificazione, non efficacemente dominabile dall’ampiezza di supervisione strategica della struttura corporate, anche dopo l’adozione di forme organizzative, orientate ad allargare la capacità di supervisione strategica o a ridurne il fabbisogno. La spinta dirompente ad abbandonare le strategie di diversificazione è stata generata dalla crescente pressione dei mercati finanziari sul management, e in particolare da alcune categorie di fondi d’investimento, il cui attivismo ha prodotto spesso la rimozione degli amministratori delegati (Grant 2003). Le imprese mal gestite, ed in particolare quelle diversificate, entrate nelle condizioni di distruzione di valore, sono diventate facili preda di scalate. La maggior parte delle OPA (Offerte Pubbliche d’Acquisto) ostili hanno avuto l’obiettivo, o comunque l’effetto, di decomporre la struttura strategica della grandi conglomerate. L’andamento delle strategie di diversificazione nel tempo sembra aver conosciuto alti e bassi, e si è sviluppata ad “ondate”, ciascuna con motivazioni ed effetti diversi sul piano della creazione del valore (Besanko, Dranove, Shanley, 1996). Negli Stati Uniti durante il secolo scorso sono state individuate cinque “ondate” di fusioni, portatrici di processi di diversificazione facenti perno su motivazioni differenti (Besanko, Dranove, Shanley, 1996; Fligstein, 1990). L’ultima ondata di fusioni negli USA viene collocata durante la metà degli anni ’90, seppur le ragioni sottostanti a gran parte delle operazioni sono riconducibili alle strategie di acquisizione di quote di mercato in specifici settori in cui l’impresa è già presente o in settori ad essi strettamente correlati (Besanko, Dranove, Shanley, 1996). Negli anni ’80 e ’90 si è verificata una evidente inversione di tendenza alla diversificazione, comprovata dalla complessiva riduzione dell’indice di diversificazione (Grant, 2003; Donna, 2003). Nella seconda metà degli anni ’90, segnatamente nel nostro paese, il pendolo ha nuovamente cominciato a muoversi verso la diversificazione, coinvolgendo soprattutto i settori altamente regolamentati. Significativi in tal senso appaiono l’ingresso della FIAT nel settore energetico (Edison), dell’ENEL nelle telecomunicazioni (Wind e successivamente Infostrada), di Pirelli nelle telecomunicazioni (Telecom), di De Agostini nel settore delle assicurazioni (Toro) (Donna, 2003). Queste operazioni hanno avuto motivazioni diverse e i relativi presupposti erano già mutati nei primi anni del 2000. La diversificazione dell’ENEL, protrattasi fino al 2001, era motivata dalla previsione della cessione, per disposizioni regolatorie, di Terna, del 50% della capacità di generazione e di parte della rete di distribuzione. Nel 2002, invece, in concomitanza con il cambiamento del vertice aziendale, si assiste ad un profondo e visibile processo di rifocalizzazione sul core business (energia elettrica e gas). Recentemente Toro è migrato verso contesti di imprese in cui più facilmente possono essere realizzate economie di scala e sinergie con altri business finanziari. Telecom ha realizzato la fusione con la controllata Tim. Nei primi sei anni del 2000 il pendolo sembra muoversi ancora verso il fenomeno di rifocalizzazione, in particolar modo nei settori regolamentati (Donna, 2003). Questo lavoro si propone di analizzare la recente tendenza dei fenomeni di concentrazione e diversificazione delle imprese di generazione e distribuzione di energia elettrica in Europa, e in particolare in Italia, esplorando le determinanti riconducibili alle tensioni nei mercati del controllo nel settore dell’energia elettrica e del gas, nonché ai mutamenti nelle politiche pubbliche e nelle prassi di regolamentazione. Gli approfondimenti dei fenomeni oggetto della trattazione verranno svolti facendo riferimento al potenziale analitico delle diverse prospettive d’indagine: da quella economico-industriale a quella basata sulle risorse e sulle competenze.

STRATEGIE Di DIVERSIFICAZIONE E CREAZIONE DEL VALORE

FONTANA, Fabrizia
2008-01-01

Abstract

La finalità ultima dell’impresa è rappresentata dalla massimizzazione del suo valore di mercato, cioè dalla creazione di valore per gli shareholders e per gli altri stakeholders che influenzano le performance delle sue attività. (Masera, Mazzoni 2006). La creazione del valore è determinata dall’attrattività del settore ( o da parti di esso) dove opera o intende operare l’impresa e dalla sua posizione competitiva relativa nel settore medesimo (Porter 1980, 1985; Grant 2005). I vantaggi competitivi dell’impresa e delle relative business unit (sbu) si fondano sullo stock di risorse e competenze critiche (di valore) disponibili all’interno e all’esterno sulle quali esercita il controllo. La crescita dell’impresa si basa sulle scelte strategiche inerenti all’individuazione del limite del confine efficiente verticale e orizzontale (Besanko, Dranove, Shanley 2000; Collis, Montgomery 1997). La scelta del confine verticale si concretizza nell’integrazione verticale, ed è condizionata dai costi di transazione e dal costo di produzione nelle alternative make or buy. La scelta del confine orizzontale, invece, si basa sulla crescita nell’ambito del medesimo settore (o parte di esso), o in settori diversi, attraverso le strategie di concentrazione e di diversificazione (correlata o conglomerale), sostenute dalle opportunità di conseguire economie di scala e di apprendimento, ed economie di scopo. L’impresa tende a svilupparsi nel medesimo settore (o nelle medesime SBU)fin quando non raggiunge il limite del confine efficiente, ovvero quando declina la domanda nel settore in cui opera o si raggiungono i limiti dimensionali imposti da provvedimenti regolatori, o comunque quando non esistono più le condizioni o le potenzialità di creazione del valore. Una volta superati tali limiti, l’impresa tende a valutare le opportunità di crescita in altri settori (o parti del medesimo settore) correlati o non correlati (Collis, Montgomery 1997, Grant 2003). Con la crescita diversificata in modo correlato, ciascuna sbu (comprese quelle acquisite) possono assimilare altre fonti di vantaggio competitivo, derivanti dalle interrelazioni sinergiche (vantaggi parentali) (Porter 1985; Donna 2003; Campbell, Good, Alexander 1995). Nell’ultimo decennio si è consolidata la tendenza delle imprese a riesaminare criticamente l’orientamento strategico della diversificazione, sospinta dall’obiettivo ultimo di creazione di valore per gli azionisti. Questa revisione critica della struttura strategica - ovvero dell’insieme delle strategic business units (SBU) in cui opera l’impresa, considerate nei loro intrinseci fattori competitivi, e nei loro reciproci legami potenzialmente capaci di creare sinergie - ha originato: Un diffuso processo di riduzione dell’estensione della diversificazione, con la rifocalizzazione sul core business, eliminando gli anelli periferici della struttura strategica (Collis, Montgomery, 1997). L’allargamento del concetto di core business al fine di ricomprendere quelle SBU intensamente correlate che beneficiano di fonti comuni di vantaggio competitivo. Fenomeni di concentrazione sul core business per soddisfare l’obiettivo di crescita del valore dell’impresa, laddove l’eccessiva diversificazione ha prodotto distruzione di valore (Donna, 2003). In un’impresa multibusiness il vantaggio competitivo di una SBU deriva dalla combinazione dei suoi specifici fattori competitivi con quelli che derivano dalle interrelazioni con le altre SBU dell’impresa. L’impresa multibusiness tende dunque a svilupparsi attorno alla possibilità di “trasferire” un vantaggio competitivo ritenuto versatile, difficilmente imitabile dai concorrenti e posseduto dal core business, alle altre SBU della medesima impresa. Gran parte delle operazioni di acquisizione di nuove SBU si fonda sul potenziale trasferimento di fonti di vantaggio competitivo dell’impresa alle SBU acquisite (Gros Pietro, 2003; Grant, 2003). D’altro canto le operazioni di cessione si fondano su una logica speculare a quella dell’acquisizione. Vengono cedute le SBU che non beneficiano, nelle specifiche condizioni, del potenziale di creazione del valore derivante dalle sinergie con le altre SBU. In tali casi le SBU tendono a migrare verso quelle imprese che sono potenzialmente in grado di creare valore su di esse mediante la condivisione dei vantaggi competitivi posseduti. Non è sufficiente conseguire l’eccellenza nei parametri che esprimono la creazione del valore, è necessario piuttosto che tali parametri siano positivamente valutati dai mercati finanziari in termini di aspettative di creazione di valore nel futuro (Gros Pietro, 2003). “Ogni giorno un milione di soggetti esprimono un giudizio sul nostro operato decidendo di continuare a tenere o a vendere le azioni della nostra impresa”, così si esprimeva il CEO di una grande impresa quotata in borsa durante gli incontri periodici con i dirigenti. I mercati, tuttavia, sono orientati dalle opinioni degli analisti finanziari che producono ricerche e valutazioni sull’andamento dei settori e delle singole imprese per conto delle grandi banche d’affari. Le previsioni di budget, i piani industriali e i singoli progetti strategici vengono attentamente valutati e rettificati negli indicatori fondamentali che esprimono il loro potenziale di creazione del valore. L’impresa eccessivamente diversificata viene guardata con sospetto dai mercati finanziari nella sua capacità di creare valore per gli azionisti, per l’incerta valutazione dell’attrattività dei settori, nei quali si collocano le SBU diversificate, per la difficoltà ad esprimere la varietà delle competenze sottostanti alle diverse SBU della struttura strategica, per la complessità dei processi di trasferimento delle fonti di vantaggio competitivo dal core business alle SBU diversificate, sia quelle che possono condurre al conseguimento di economie di scopo, sia quelle fondate sul trasferimento di competenze rilevanti (Grant, 2003). In sintesi, la crisi di molte imprese diversificate nella loro capacità di creare valore appare dovuta: 1. All’incerta valutazione dell’attrattività dei business diversificati; 2. Al prezzo d’ingresso in nuovi business, superiore a quanto consentito dalla loro redditività, sostenuto dalla prospettiva del suo miglioramento attraverso lo sfruttamento, in termini di sinergie, delle potenziali interrelazioni con il core business; 3. Alla difficoltà o spesso all’impossibilità di realizzare le potenziali sinergie, sia per la complessità dei necessari processi di integrazione, sia per l’erronea valutazione del potenziale sinergico delle interdipendenze tangibili e del patrimonio strategico di competenze (Fontana, Caroli, 2005; Donna, 2003; Porter, 1985); 4. Alla crescita della complessità organizzativa, determinata dall’estensione della diversificazione, non efficacemente dominabile dall’ampiezza di supervisione strategica della struttura corporate, anche dopo l’adozione di forme organizzative, orientate ad allargare la capacità di supervisione strategica o a ridurne il fabbisogno. La spinta dirompente ad abbandonare le strategie di diversificazione è stata generata dalla crescente pressione dei mercati finanziari sul management, e in particolare da alcune categorie di fondi d’investimento, il cui attivismo ha prodotto spesso la rimozione degli amministratori delegati (Grant 2003). Le imprese mal gestite, ed in particolare quelle diversificate, entrate nelle condizioni di distruzione di valore, sono diventate facili preda di scalate. La maggior parte delle OPA (Offerte Pubbliche d’Acquisto) ostili hanno avuto l’obiettivo, o comunque l’effetto, di decomporre la struttura strategica della grandi conglomerate. L’andamento delle strategie di diversificazione nel tempo sembra aver conosciuto alti e bassi, e si è sviluppata ad “ondate”, ciascuna con motivazioni ed effetti diversi sul piano della creazione del valore (Besanko, Dranove, Shanley, 1996). Negli Stati Uniti durante il secolo scorso sono state individuate cinque “ondate” di fusioni, portatrici di processi di diversificazione facenti perno su motivazioni differenti (Besanko, Dranove, Shanley, 1996; Fligstein, 1990). L’ultima ondata di fusioni negli USA viene collocata durante la metà degli anni ’90, seppur le ragioni sottostanti a gran parte delle operazioni sono riconducibili alle strategie di acquisizione di quote di mercato in specifici settori in cui l’impresa è già presente o in settori ad essi strettamente correlati (Besanko, Dranove, Shanley, 1996). Negli anni ’80 e ’90 si è verificata una evidente inversione di tendenza alla diversificazione, comprovata dalla complessiva riduzione dell’indice di diversificazione (Grant, 2003; Donna, 2003). Nella seconda metà degli anni ’90, segnatamente nel nostro paese, il pendolo ha nuovamente cominciato a muoversi verso la diversificazione, coinvolgendo soprattutto i settori altamente regolamentati. Significativi in tal senso appaiono l’ingresso della FIAT nel settore energetico (Edison), dell’ENEL nelle telecomunicazioni (Wind e successivamente Infostrada), di Pirelli nelle telecomunicazioni (Telecom), di De Agostini nel settore delle assicurazioni (Toro) (Donna, 2003). Queste operazioni hanno avuto motivazioni diverse e i relativi presupposti erano già mutati nei primi anni del 2000. La diversificazione dell’ENEL, protrattasi fino al 2001, era motivata dalla previsione della cessione, per disposizioni regolatorie, di Terna, del 50% della capacità di generazione e di parte della rete di distribuzione. Nel 2002, invece, in concomitanza con il cambiamento del vertice aziendale, si assiste ad un profondo e visibile processo di rifocalizzazione sul core business (energia elettrica e gas). Recentemente Toro è migrato verso contesti di imprese in cui più facilmente possono essere realizzate economie di scala e sinergie con altri business finanziari. Telecom ha realizzato la fusione con la controllata Tim. Nei primi sei anni del 2000 il pendolo sembra muoversi ancora verso il fenomeno di rifocalizzazione, in particolar modo nei settori regolamentati (Donna, 2003). Questo lavoro si propone di analizzare la recente tendenza dei fenomeni di concentrazione e diversificazione delle imprese di generazione e distribuzione di energia elettrica in Europa, e in particolare in Italia, esplorando le determinanti riconducibili alle tensioni nei mercati del controllo nel settore dell’energia elettrica e del gas, nonché ai mutamenti nelle politiche pubbliche e nelle prassi di regolamentazione. Gli approfondimenti dei fenomeni oggetto della trattazione verranno svolti facendo riferimento al potenziale analitico delle diverse prospettive d’indagine: da quella economico-industriale a quella basata sulle risorse e sulle competenze.
2008
9788856805963
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