1.Divorzi E’ innegabile che i linguaggi dell’architettura elaborati dalla Modernità prima e dalla Contemporaneità poi, non abbiano mai incontrato il favore della maggior parte delle persone, risultando troppo specialistici, poco intellegibili al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Occorre chiedersi se esista la possibilità di praticare un linguaggio architettonico che sappia essere capito/condiviso/interpretato dal pubblico dell’architettura. Alla radice del mancato gradimento e della mancata condivisione, vi sono almeno quattro divorzi che proviamo a considerare. Il primo divorzio è quello tra l’edilizia tradizionale, il linguaggio classico e classicista e dei vari revival storici da una parte, superato dai tempi ma congenito al pubblico; e quanto elaborato dall’Avanguardia dall’altra: l’edilizia nuova e il linguaggio moderno, al passo con i tempi ma estraneo al pubblico e alla classe dirigente. Il secondo divorzio è quello tra produzione a abitazione dello spazio, consumatosi con la rivoluzione industriale, la nascita delle professioni liberali, la produzione edilizia di massa. Una minima quantità di persone, oggi ma già ieri, hanno la possibilità di decidere sull’ambiente nel quale vivono: la maggior parte ha perso la possibilità di organizzare e formalizzare lo spazio in prima persona. Il terzo divorzio è quello tra produzione industriale e qualificazione intellettuale, cioè tra quantità e qualità. Gli imprenditori hanno adottato gli elementi della nuova architettura utili per i profitti, eliminando tutti i contenuti sperimentali; la domanda degli utenti è viziata dalla scarsa cultura diffusa riguardo l’abitare e dalla pervasività del gusto diffuso dai media; la cultura architettonica è incapace di spiegare con chiarezza e semplicità le proprie elaborazioni e proposte. Il quarto divorzio è quello tra organizzazione dello spazio e scrittura architettonica. Mentre infatti quanto concerne l’organizzazione dello spazio e soprattutto la distribuzione delle funzioni, interviene in maniera diretta sull’abitare degli utenti; viceversa, quanto concerne le questioni di scrittura ha per gli utenti un significato molto più marginale. Nella preferenza spesso accordata dagli architetti alle questioni di scrittura, leggiamo uno sciagurato prevalere del come sul perché e anche un fraintendimento del senso stesso del fare architettura. 2.Matrimonio d’interesse Ipotizziamo che un linguaggio condiviso sia costruibile all’intersezione di due direttrici di lavoro: l’una basata su pratiche di organizzazione dello spazio, derivate dal funzionalismo, che chiameremo Performative; l’altra basata su pratiche configurative, derivate dal minimalismo, che chiameremo Primarie. L’idea di architettura Performativa deriva da una lettura dell’opera di Koolhaas, che sarebbe “fondamentalmente performativa, nel senso che la sua validità come costruzione non deriva dalla sua rappresentazione o riproduzione di un modello, ma dalla sua esattezza operativa, dalla sua adeguatezza o efficienza”. Sono invece Architetture Primarie quelle dovute ad un gesto conformativo elementare, non ulteriormente riducibile: è primario il gesto con il quale Gabetti e Isola incidono il suolo a Ivrea per realizzare la Residenziale Ovest o quello con il quale i Tezuka Architects perimetrano lo spazio dell’asilo a Fuji. Sosteniamo che le architetture performative possano essere apprezzate dall’utenza, perché esattezza operativa, adeguatezza ed efficienza dovrebbero essere capaci di intercettare domande, desideri e aspirazioni, fornendo risposte qualificate ma non arbitrarie. Sosteniamo che le architetture primarie siano più comprensibili, perché riconducibili ad azioni formative che appartengono all’esperienza quotidiana, a modi del fare che non appartengono esclusivamente all’architettura. Si può definire così, all’intersezione di performativo e primario, un linguaggio architettonico più intellegibile?
Quattro divorzi e un matrimonio, ovvero: verso un linguaggio dell’architettura (un pò più) condiviso
BILO', Federico
2012-01-01
Abstract
1.Divorzi E’ innegabile che i linguaggi dell’architettura elaborati dalla Modernità prima e dalla Contemporaneità poi, non abbiano mai incontrato il favore della maggior parte delle persone, risultando troppo specialistici, poco intellegibili al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Occorre chiedersi se esista la possibilità di praticare un linguaggio architettonico che sappia essere capito/condiviso/interpretato dal pubblico dell’architettura. Alla radice del mancato gradimento e della mancata condivisione, vi sono almeno quattro divorzi che proviamo a considerare. Il primo divorzio è quello tra l’edilizia tradizionale, il linguaggio classico e classicista e dei vari revival storici da una parte, superato dai tempi ma congenito al pubblico; e quanto elaborato dall’Avanguardia dall’altra: l’edilizia nuova e il linguaggio moderno, al passo con i tempi ma estraneo al pubblico e alla classe dirigente. Il secondo divorzio è quello tra produzione a abitazione dello spazio, consumatosi con la rivoluzione industriale, la nascita delle professioni liberali, la produzione edilizia di massa. Una minima quantità di persone, oggi ma già ieri, hanno la possibilità di decidere sull’ambiente nel quale vivono: la maggior parte ha perso la possibilità di organizzare e formalizzare lo spazio in prima persona. Il terzo divorzio è quello tra produzione industriale e qualificazione intellettuale, cioè tra quantità e qualità. Gli imprenditori hanno adottato gli elementi della nuova architettura utili per i profitti, eliminando tutti i contenuti sperimentali; la domanda degli utenti è viziata dalla scarsa cultura diffusa riguardo l’abitare e dalla pervasività del gusto diffuso dai media; la cultura architettonica è incapace di spiegare con chiarezza e semplicità le proprie elaborazioni e proposte. Il quarto divorzio è quello tra organizzazione dello spazio e scrittura architettonica. Mentre infatti quanto concerne l’organizzazione dello spazio e soprattutto la distribuzione delle funzioni, interviene in maniera diretta sull’abitare degli utenti; viceversa, quanto concerne le questioni di scrittura ha per gli utenti un significato molto più marginale. Nella preferenza spesso accordata dagli architetti alle questioni di scrittura, leggiamo uno sciagurato prevalere del come sul perché e anche un fraintendimento del senso stesso del fare architettura. 2.Matrimonio d’interesse Ipotizziamo che un linguaggio condiviso sia costruibile all’intersezione di due direttrici di lavoro: l’una basata su pratiche di organizzazione dello spazio, derivate dal funzionalismo, che chiameremo Performative; l’altra basata su pratiche configurative, derivate dal minimalismo, che chiameremo Primarie. L’idea di architettura Performativa deriva da una lettura dell’opera di Koolhaas, che sarebbe “fondamentalmente performativa, nel senso che la sua validità come costruzione non deriva dalla sua rappresentazione o riproduzione di un modello, ma dalla sua esattezza operativa, dalla sua adeguatezza o efficienza”. Sono invece Architetture Primarie quelle dovute ad un gesto conformativo elementare, non ulteriormente riducibile: è primario il gesto con il quale Gabetti e Isola incidono il suolo a Ivrea per realizzare la Residenziale Ovest o quello con il quale i Tezuka Architects perimetrano lo spazio dell’asilo a Fuji. Sosteniamo che le architetture performative possano essere apprezzate dall’utenza, perché esattezza operativa, adeguatezza ed efficienza dovrebbero essere capaci di intercettare domande, desideri e aspirazioni, fornendo risposte qualificate ma non arbitrarie. Sosteniamo che le architetture primarie siano più comprensibili, perché riconducibili ad azioni formative che appartengono all’esperienza quotidiana, a modi del fare che non appartengono esclusivamente all’architettura. Si può definire così, all’intersezione di performativo e primario, un linguaggio architettonico più intellegibile?File | Dimensione | Formato | |
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