Il rapporto tra verità di fede e politica nel pensiero di John Locke appare ben delineato sin dalle prime opere: la verità evidente dell’esistenza di un Dio creatore e supremo legislatore dell’universo comanda agli uomini di conformarsi ai precetti della legge di natura, in quanto espressione dei voleri divini; tali precetti racchiudono il fondamento ultimo della legge civile, che trae dalla legge di natura la sua forza vincolante. Il magistrato è egli stesso sottoposto alla legge che il supremo legislatore ha dettato agli uomini, l’unica dotata di forza intrinseca . D’altra parte, l’autorità conferita da Dio al magistrato come suo delegato alla tutela del bene comune era uno degli argomenti sui quali insisteva l’Anglicanesimo più intransigente all’indomani della Restaurazione, per legittimare l’intervento del potere civile in difesa della conformità di culto: tale intervento era auspicato dai membri dell’alto clero, come l’arcivescovo Gilbert Sheldon, e legittimato dai più ferventi sostenitori del patriarcalismo, Samuel Parker e Robert Filmer. Altri esponenti del clero, Thomas Long e William Cave, insistevano sull’opportunità di infliggere punizioni civili ai dissenzienti per spingerli all’uniformità . La legittimità assicurata dalle leggi alla sola Chiesa d’Inghilterra era uno degli argomenti sui quali insisteva il moderato vescovo Stillingfleet durante l’Exclusion Crisis, quando militava sul fronte di una politica ecumenica protestante scoraggiando il dissenso (Stilligfleet, 1681); rispondendo a quest’ultimo, Locke ne elogiava la «larghezza di vedute» che si esplicava in una difesa della comprehension, tuttavia criticava la Chiesa d’Inghilterra per il suo appello al magistrato come «padre e custode» della religione (Locke, 2003). L’alleanza tra i due poteri, il religioso e civile, doveva apparire a Locke pericolosamente incline a favorire un’estensione arbitraria del potere del sovrano (una preoccupazione questa già espressa nel primo dei due Tracts sul magistrato civile), ma anche una non meno preoccupante intromissione del potere ecclesiastico nelle questioni politiche (la distinzione tra le sfere di pertinenza di Chiesa e Stato sarà infatti uno dei temi della prima Lettera sulla tolleranza). Per arginare entrambi i pericoli, Locke ricorre negli scritti sulla tolleranza ad un ampio ventaglio di argomenti finalizzati a dimostrare non solo l’illegittimità, ma anche l’inutilità dell’uso della forza per contrastare il dissenso religioso; alcuni di questi vertono sulla fallibilità del magistrato, altri sulla natura privata del rapporto tra Dio e l’uomo (un rapporto che non ammette deleghe), altri ancora sull’irrilevanza del culto esteriore all’interno della «vera religione» (quest’ultima intesa essenzialmente come vita buona, conforme agli insegnamenti del Vangelo). D’altra parte, tali argomenti si rivelano sufficienti unicamente a garantire una tolleranza limitata, in quanto non intaccano l’arbitrio del magistrato: come supremo giudice, questi ha il pieno diritto di perseguire penalmente le opinioni che ritiene pericolose per la sicurezza pubblica. Un altro argomento sviluppato nella Terza lettera per la tolleranza sembra capace di arginare l’arbitrio del magistrato in maniera più radicale: poiché l’uso della forza può legittimarsi unicamente in nome del bene pubblico, e poiché tale bene si identifica con il comando della legge di natura che impone di preservare il più possibile le vite dei sudditi, l’intolleranza assurta a principio universale si mostra inaccettabile in quanto presuppone un’estensione del potere legislativo che Dio non ha comandato né avrebbe potuto volere, date le conseguenze dannose che ne derivano. Poiché ogni magistrato è fallibile, e poiché ognuno rivendica l’ortodossia per le proprie opinioni, la costrizione quando legittimata come principio universale danneggia la verità più di quanto possa promuoverla; la legge di natura non potrebbe dunque autorizzare l’uso della forza per diffondere la vera religione. Essa sarebbe stata pensata dal suo Autore come legge la cui applicazione è demandata ad esseri fallibili, incapaci di discernere il vero con chiarezza. La tolleranza che Locke promuove mediante l’appello alla legge di natura e al punto di vista del supremo legislatore, pienamente sviluppata solo a partire dalla Terza lettera, sembra arginare radicalmente l’arbitrio del magistrato, che dovrà sempre universalizzare i suoi giudizi prima di decidere che cosa non è opportuno tollerare in nome del bene pubblico; la libertà di coscienza garantita dalla tolleranza si presenta negli scritti maturi di Locke come l’unico strumento in grado di non danneggiare la verità - benché non il più efficace nel diffonderla - in un mondo governato da esseri fallibili.

John Locke. Verità di fede, politica, tolleranza

DI BIASE, Giuliana
2015-01-01

Abstract

Il rapporto tra verità di fede e politica nel pensiero di John Locke appare ben delineato sin dalle prime opere: la verità evidente dell’esistenza di un Dio creatore e supremo legislatore dell’universo comanda agli uomini di conformarsi ai precetti della legge di natura, in quanto espressione dei voleri divini; tali precetti racchiudono il fondamento ultimo della legge civile, che trae dalla legge di natura la sua forza vincolante. Il magistrato è egli stesso sottoposto alla legge che il supremo legislatore ha dettato agli uomini, l’unica dotata di forza intrinseca . D’altra parte, l’autorità conferita da Dio al magistrato come suo delegato alla tutela del bene comune era uno degli argomenti sui quali insisteva l’Anglicanesimo più intransigente all’indomani della Restaurazione, per legittimare l’intervento del potere civile in difesa della conformità di culto: tale intervento era auspicato dai membri dell’alto clero, come l’arcivescovo Gilbert Sheldon, e legittimato dai più ferventi sostenitori del patriarcalismo, Samuel Parker e Robert Filmer. Altri esponenti del clero, Thomas Long e William Cave, insistevano sull’opportunità di infliggere punizioni civili ai dissenzienti per spingerli all’uniformità . La legittimità assicurata dalle leggi alla sola Chiesa d’Inghilterra era uno degli argomenti sui quali insisteva il moderato vescovo Stillingfleet durante l’Exclusion Crisis, quando militava sul fronte di una politica ecumenica protestante scoraggiando il dissenso (Stilligfleet, 1681); rispondendo a quest’ultimo, Locke ne elogiava la «larghezza di vedute» che si esplicava in una difesa della comprehension, tuttavia criticava la Chiesa d’Inghilterra per il suo appello al magistrato come «padre e custode» della religione (Locke, 2003). L’alleanza tra i due poteri, il religioso e civile, doveva apparire a Locke pericolosamente incline a favorire un’estensione arbitraria del potere del sovrano (una preoccupazione questa già espressa nel primo dei due Tracts sul magistrato civile), ma anche una non meno preoccupante intromissione del potere ecclesiastico nelle questioni politiche (la distinzione tra le sfere di pertinenza di Chiesa e Stato sarà infatti uno dei temi della prima Lettera sulla tolleranza). Per arginare entrambi i pericoli, Locke ricorre negli scritti sulla tolleranza ad un ampio ventaglio di argomenti finalizzati a dimostrare non solo l’illegittimità, ma anche l’inutilità dell’uso della forza per contrastare il dissenso religioso; alcuni di questi vertono sulla fallibilità del magistrato, altri sulla natura privata del rapporto tra Dio e l’uomo (un rapporto che non ammette deleghe), altri ancora sull’irrilevanza del culto esteriore all’interno della «vera religione» (quest’ultima intesa essenzialmente come vita buona, conforme agli insegnamenti del Vangelo). D’altra parte, tali argomenti si rivelano sufficienti unicamente a garantire una tolleranza limitata, in quanto non intaccano l’arbitrio del magistrato: come supremo giudice, questi ha il pieno diritto di perseguire penalmente le opinioni che ritiene pericolose per la sicurezza pubblica. Un altro argomento sviluppato nella Terza lettera per la tolleranza sembra capace di arginare l’arbitrio del magistrato in maniera più radicale: poiché l’uso della forza può legittimarsi unicamente in nome del bene pubblico, e poiché tale bene si identifica con il comando della legge di natura che impone di preservare il più possibile le vite dei sudditi, l’intolleranza assurta a principio universale si mostra inaccettabile in quanto presuppone un’estensione del potere legislativo che Dio non ha comandato né avrebbe potuto volere, date le conseguenze dannose che ne derivano. Poiché ogni magistrato è fallibile, e poiché ognuno rivendica l’ortodossia per le proprie opinioni, la costrizione quando legittimata come principio universale danneggia la verità più di quanto possa promuoverla; la legge di natura non potrebbe dunque autorizzare l’uso della forza per diffondere la vera religione. Essa sarebbe stata pensata dal suo Autore come legge la cui applicazione è demandata ad esseri fallibili, incapaci di discernere il vero con chiarezza. La tolleranza che Locke promuove mediante l’appello alla legge di natura e al punto di vista del supremo legislatore, pienamente sviluppata solo a partire dalla Terza lettera, sembra arginare radicalmente l’arbitrio del magistrato, che dovrà sempre universalizzare i suoi giudizi prima di decidere che cosa non è opportuno tollerare in nome del bene pubblico; la libertà di coscienza garantita dalla tolleranza si presenta negli scritti maturi di Locke come l’unico strumento in grado di non danneggiare la verità - benché non il più efficace nel diffonderla - in un mondo governato da esseri fallibili.
2015
978-88-430-7455-6
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11564/639093
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