«Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio». La città gronda di sangue. È il sangue dell’omicidio di Abele che la terra assorbe. Ma è anche il sangue del parto che accompagna la nascita di Enoch. Sin dalla Genesi, tra inumano e umano esiste un intreccio inestricabile. Che associa i due termini. Che mescola orrore e bellezza. Vita e morte. È un’esperienza che continua. Con una successione, solo apparentemente contraddittoria, tra infimo e sublime. E che procede a strappi ora verso l’uno, ora verso l’altro. Accelerando. E rallentando. Senza alcuna linearità che non sia quella dell’incedere del tempo. Ed è proprio il tempo, con alcune delle sue figure più ricorrenti nella storia della città, a caratterizzare la categoria dell’inumano. La prima figura è quella del dolore e si situa tra l’esperienza del dolore e l’esperienza come dolore. Il suo spazio è quello del campo di concentramento dove l’umano è incastrato all’interno di un recinto di filo spinato. Qui l’esperienza del dolore è quella quotidiana del lavoro che rende liberi (Arbeit macht frei). E si inscrive nella speranza di poter oltrepassare i confini del lager. È la volontà di guardare al futuro. Nonostante tutto. L’esperienza come dolore è, invece, quella della morte. Che gli altri hanno già fatto. E che potrebbe riguardare, da un momento all’altro, anche chi oggi è solo spettatore. Uno spettatore che impotentemente guarda. Restando in attesa del proprio destino. Con una speranza molto più flebile. Ed un futuro quasi inesistente. La figura dello sviluppo abita lo spazio tra progresso e catastrofe (Salvatore Natoli). Il progresso del progetto moderno con la sua idea di emancipazione collettiva e di città in quanto comunità di individui. La catastrofe dello sviluppo in quanto crescita malintesa. Che è andata configurandosi come crescita illimitata. Ingrandirsi sempre e comunque. A qualunque costo. Senza domandarsi: sin dove? A spese di chi? Con quali ripercussioni ambientali? L’imperativo della crescita ha portato la città a diventare agglomerato di sconosciuti. Infinitamente esteso ed estendibile. Ed è proprio questo itinerario analitico che ha consentito a Paul Virilio di sostenere che «la più grande catastrofe del ventesimo secolo è stata la città». Catastrofe, però, non è solo sintomo di disastro. Etimologicamente significa rovesciamento, capovolgimento. Quindi, un epilogo ma anche un nuovo inizio. In questa prospettiva occorre trovare una nuova direzione. Mettersi in movimento. In cammino verso un progetto alternativo alla fine della storia urbana.

La città inumana

CLEMENTE, Antonio Alberto
2005-01-01

Abstract

«Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio». La città gronda di sangue. È il sangue dell’omicidio di Abele che la terra assorbe. Ma è anche il sangue del parto che accompagna la nascita di Enoch. Sin dalla Genesi, tra inumano e umano esiste un intreccio inestricabile. Che associa i due termini. Che mescola orrore e bellezza. Vita e morte. È un’esperienza che continua. Con una successione, solo apparentemente contraddittoria, tra infimo e sublime. E che procede a strappi ora verso l’uno, ora verso l’altro. Accelerando. E rallentando. Senza alcuna linearità che non sia quella dell’incedere del tempo. Ed è proprio il tempo, con alcune delle sue figure più ricorrenti nella storia della città, a caratterizzare la categoria dell’inumano. La prima figura è quella del dolore e si situa tra l’esperienza del dolore e l’esperienza come dolore. Il suo spazio è quello del campo di concentramento dove l’umano è incastrato all’interno di un recinto di filo spinato. Qui l’esperienza del dolore è quella quotidiana del lavoro che rende liberi (Arbeit macht frei). E si inscrive nella speranza di poter oltrepassare i confini del lager. È la volontà di guardare al futuro. Nonostante tutto. L’esperienza come dolore è, invece, quella della morte. Che gli altri hanno già fatto. E che potrebbe riguardare, da un momento all’altro, anche chi oggi è solo spettatore. Uno spettatore che impotentemente guarda. Restando in attesa del proprio destino. Con una speranza molto più flebile. Ed un futuro quasi inesistente. La figura dello sviluppo abita lo spazio tra progresso e catastrofe (Salvatore Natoli). Il progresso del progetto moderno con la sua idea di emancipazione collettiva e di città in quanto comunità di individui. La catastrofe dello sviluppo in quanto crescita malintesa. Che è andata configurandosi come crescita illimitata. Ingrandirsi sempre e comunque. A qualunque costo. Senza domandarsi: sin dove? A spese di chi? Con quali ripercussioni ambientali? L’imperativo della crescita ha portato la città a diventare agglomerato di sconosciuti. Infinitamente esteso ed estendibile. Ed è proprio questo itinerario analitico che ha consentito a Paul Virilio di sostenere che «la più grande catastrofe del ventesimo secolo è stata la città». Catastrofe, però, non è solo sintomo di disastro. Etimologicamente significa rovesciamento, capovolgimento. Quindi, un epilogo ma anche un nuovo inizio. In questa prospettiva occorre trovare una nuova direzione. Mettersi in movimento. In cammino verso un progetto alternativo alla fine della storia urbana.
2005
9788843033454
88-430-3345-X
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11564/660590
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