Il lavoro è dedicato alla cultura filosofico e giuridica danese con particolare attenzione ai modi con i quali si lasciano ritrovare in essa composti tra di loro comunità, democrazia, diritto. Nella prima delle due parti il lavoro studia autori e voci d’attorno, operose, tra gli anni Trenta e Sessanta dell’Ottocento danese, quelli della cosiddetta âge d’or, stagione peculiare di effervescenza culturale, tra ridimensionamento internazionale e nuovi slanci economici: Anders Sandøe Ørsted (1778-1860) politico autorevole, uomo pubblico ritenuto padre del realismo giuridico danese; Nikolaj Frederik Severin Grundtvig (1783-1872), teologo sensibile al romanticismo tedesco ma anche al liberalismo inglese, autore e promotore di una Chiesa di popolo e d’un comunitarismo democratico non paternalistico; l’impolitico Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855) ostinatamente irriverente tra i salotti bene di Copenhagen, la Chiesa ufficiale e il luteranesimo popolare, ferocemente critico d’ogni assieme fatto di massa, folla, pubblico. Divisi su molto, su d’una cosa, per vie diverse, concordano: essere la monarchia, anche e sebbene divenuta nel frattempo costituzionale, la migliore forma di governo. Comunità per essi sia che la riconoscano, promuovano o disprezzino è il concreto vivere assieme secondo valori che una lunga tradizione entro il luteranesimo ora popolare ora d’élite, vi avevano insediato. Per Ørsted e Grundtvig gli individui stanno entro la comunità (samfund; fælleskab) ma non hanno una loro particolare voce da far valere, ora perché bisognevoli del soccorso delle istituzioni, ora perché entità, soggettività da educare con metodo democratico alla vita comunitaria. Per la filosofia teologica di Kierkegaard l’individuo è il primo, e come Singolo il Tutto in una comunità di martiri. Particolarmente significativa è la concezione del diritto di Ørsted. Uomo danese di cultura tedesca aveva guardato con estremo interesse alle posizioni del primo Savigny sottolineando la particolare importanza del ruolo della scienza entro l’universo giuridico. Decisiva per questa sua apertura agli assunti della scuola storica è stata certamente la sua concezione della consuetudine come esplicazione nella realtà dell’esperienza dei principi morali e religiosi peculiari nella tradizione danese. Merita qui non più che un cenno il percorso filosofico compiuto da Ørsted, da Kant a Fichte a Garve, quest’ultimo filosofo particolarmente significativo per i suoi studi di retorica classica. Qualcosa occorre in questa sede segnalare anche a proposito di Grundtvig, ma più che il suo sofferto percorso entro le istituzioni ecclesiastiche fino alla costituzione d’un partito, la sua appassionata attenzione per il mondo dei miti della comunità nordica suffragata dalla dottrina herderiana del Volk. Folk, folkelighed sono espressioni decisamente ricorrenti, modi diversi di dire ‘danità’ (danskhed), ‘danità’ che è insieme tradizione e nuovo cammino, dal basso. Entro il discorso di Grundtvig il diritto non pare avere più che una dimensione strumentale, una sorta di via segnata per la concretizzazione d’una comunità di fedeli (menighed). La nascitura società borghese in Copenhagen e dintorni aveva il suo critico sferzante in Kierkegaard. Alle astrazioni del diritto, alla logica degli interessi e dei commerci, alle dogmatiche della Chiesa ufficiale Kierkegaard opponeva radicalmente la testimonianza, la scelta della fede: meglio un tiranno che quel che fosse scomposto vociare della massa (mængden), di folla, di eguaglianza, di democrazia, socialismi compresi. La seconda parte del volume affronta e studia su comunità, democrazia, diritto autori anzitutto giuristi e filosofi del diritto tra gli anni Trenta e Novanta del secolo appena trascorso. A cominciare dall’Alf Ross del "Virkelighed og gyldighed i retslæren", 1934, su realismo, validità e fonti, fino al Ross dell’"Om ret og retfærdighed", 1953, su kulturtradition o valori condivisi, ideologia normativa e comunità dei giudici. Un realismo – a differenza di quello di Ørsted di tanto voluto di quanto difficile per gli assunti epistemologici – rischioso per le contiguità con le prospettive di sociologie formatesi anch’esse nell’ambiente scandinavo e teso a preservare seppure in un quadro emotivistico la irriducibilità del normativo. Nel ’34 già s’annunciava al di là del confine danese il tiranno e la fragilità di Weimar era per tutto il mondo liberal-democratico europeo evidente. Con la fine della guerra opzioni totalitarie che erano sembrate più lontane si erano fatte imminenti anche all’interno della piccola comunità danese. Ross è sul fronte della democrazia. Ross, a dispetto dei fallimenti e consapevole delle inquietudini è da subito fermamente per la democrazia: democrazia come valore, un valore (kulturtradition) assunto come peculiare nelle tradizioni del Nord, e come procedura giuridicamente regolata per la istituzione e la gestione del potere e dei suoi atti deliberativi. Custodi dell’istanza democratica, ossia di quanto vi sta implicito – individuo e la sua libertà – avranno da essere nel disegno rossiano i giudici e il loro sentire e agire comune. Dopo e contro Ross nelle opzioni epistemologiche e nei disegni di primazia – a parte l’assunto più o meno sincero di un recupero della tradizione ørstediana – entro il giuridico, ed anzi, più ancora, entro il sociale: Stig Jørgensen (1927-2015) con la sua via ermeneutica; Preben Stuer Lauridsen (1940-2013) con la sua opzione coerentista quineana; David Roland Doublet (1954-2000), peculiarmente a cavallo tra ermeneutica e funzionalismo. Di questi tre Doublet non è danese ma da norvegese si lascia agevolmente iscrivere anche per la continuità tematica e problematica entro un quadro della cultura danese. Che cosa unisce Ross ai tre contraddittori che lo hanno seguito entro la prospettiva di studio che ci siamo assegnati? C’è un tratto peculiare. I nostri giuristi e filosofi del diritto a cominciare da Ross, scienziati sociali, nel mentre non hanno più motivo – è passato un secolo, e che secolo! – di guardare al sociale in termini e secondo i modi di una comunità pensano decisamente, gli uni e gli altri, che la custodia e l’amministrazione del normativo non possa non aver luogo che nei modi propri di una comunità: per Ross la comunità di giudici, per Jørgensen la comunità degli interpreti, per Lauridsen la comunità dei legal professionals, per Doublet la comunità giuridica comunicativa. Ross aveva di certo vissuto prima, durante e dopo la guerra il dramma della libertà. La libertà è un bene istituzionalmente e costituzionalmente acquisito nelle realtà politiche dell’Europa continentale del dopoguerra. È probabilmente questa la ragione per la quale non si ritrovano nelle pagine d’un Jørgensen, d’un Lauridsen, d’un Doublet particolari preoccupazioni quanto alla democrazia e come valore e come procedura. Non da meno essi si vogliono scienziati sociali, ma nell’universalismo delle idee giuridiche di Jørgensen, nell’unità e sostanziale identità di scienza e politica del diritto di Lauridsen, nel modello funzionalistico di Doublet più che il valore e il valere dell’individuo viene al primo piano il valore e il valere d’un sapere giuridico che si autogiustifica ancorandosi al più alla kulturtradition di matrice rossiana. Le due parti del volume come questa introduzione sta mostrando affrontano e discutono pagine del pensiero politico, filosofico e giuridico danese che sono tra di loro in tutta evidenza distanti e lontane. Ma il tema che le tiene assieme e le fa parti di un discorso unitario sta nella permanenza e ricorrenza di comunità nel suo diverso star nel gioco di democrazia e diritto, come se, almeno entro il sentire filosofico-giuridico danese, il depotenziamento di modelli comunitari nelle strutture sociali esigesse – quasi in funzione di garanzia e stabilità – una compensazione nei modi comunitari del conoscere e dell’agire di quanti ne sanno di diritto.

Il pensiero filosofico e giuridico danese. Tra comunità democrazia e diritto

Alessandro Serpe
2020-01-01

Abstract

Il lavoro è dedicato alla cultura filosofico e giuridica danese con particolare attenzione ai modi con i quali si lasciano ritrovare in essa composti tra di loro comunità, democrazia, diritto. Nella prima delle due parti il lavoro studia autori e voci d’attorno, operose, tra gli anni Trenta e Sessanta dell’Ottocento danese, quelli della cosiddetta âge d’or, stagione peculiare di effervescenza culturale, tra ridimensionamento internazionale e nuovi slanci economici: Anders Sandøe Ørsted (1778-1860) politico autorevole, uomo pubblico ritenuto padre del realismo giuridico danese; Nikolaj Frederik Severin Grundtvig (1783-1872), teologo sensibile al romanticismo tedesco ma anche al liberalismo inglese, autore e promotore di una Chiesa di popolo e d’un comunitarismo democratico non paternalistico; l’impolitico Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855) ostinatamente irriverente tra i salotti bene di Copenhagen, la Chiesa ufficiale e il luteranesimo popolare, ferocemente critico d’ogni assieme fatto di massa, folla, pubblico. Divisi su molto, su d’una cosa, per vie diverse, concordano: essere la monarchia, anche e sebbene divenuta nel frattempo costituzionale, la migliore forma di governo. Comunità per essi sia che la riconoscano, promuovano o disprezzino è il concreto vivere assieme secondo valori che una lunga tradizione entro il luteranesimo ora popolare ora d’élite, vi avevano insediato. Per Ørsted e Grundtvig gli individui stanno entro la comunità (samfund; fælleskab) ma non hanno una loro particolare voce da far valere, ora perché bisognevoli del soccorso delle istituzioni, ora perché entità, soggettività da educare con metodo democratico alla vita comunitaria. Per la filosofia teologica di Kierkegaard l’individuo è il primo, e come Singolo il Tutto in una comunità di martiri. Particolarmente significativa è la concezione del diritto di Ørsted. Uomo danese di cultura tedesca aveva guardato con estremo interesse alle posizioni del primo Savigny sottolineando la particolare importanza del ruolo della scienza entro l’universo giuridico. Decisiva per questa sua apertura agli assunti della scuola storica è stata certamente la sua concezione della consuetudine come esplicazione nella realtà dell’esperienza dei principi morali e religiosi peculiari nella tradizione danese. Merita qui non più che un cenno il percorso filosofico compiuto da Ørsted, da Kant a Fichte a Garve, quest’ultimo filosofo particolarmente significativo per i suoi studi di retorica classica. Qualcosa occorre in questa sede segnalare anche a proposito di Grundtvig, ma più che il suo sofferto percorso entro le istituzioni ecclesiastiche fino alla costituzione d’un partito, la sua appassionata attenzione per il mondo dei miti della comunità nordica suffragata dalla dottrina herderiana del Volk. Folk, folkelighed sono espressioni decisamente ricorrenti, modi diversi di dire ‘danità’ (danskhed), ‘danità’ che è insieme tradizione e nuovo cammino, dal basso. Entro il discorso di Grundtvig il diritto non pare avere più che una dimensione strumentale, una sorta di via segnata per la concretizzazione d’una comunità di fedeli (menighed). La nascitura società borghese in Copenhagen e dintorni aveva il suo critico sferzante in Kierkegaard. Alle astrazioni del diritto, alla logica degli interessi e dei commerci, alle dogmatiche della Chiesa ufficiale Kierkegaard opponeva radicalmente la testimonianza, la scelta della fede: meglio un tiranno che quel che fosse scomposto vociare della massa (mængden), di folla, di eguaglianza, di democrazia, socialismi compresi. La seconda parte del volume affronta e studia su comunità, democrazia, diritto autori anzitutto giuristi e filosofi del diritto tra gli anni Trenta e Novanta del secolo appena trascorso. A cominciare dall’Alf Ross del "Virkelighed og gyldighed i retslæren", 1934, su realismo, validità e fonti, fino al Ross dell’"Om ret og retfærdighed", 1953, su kulturtradition o valori condivisi, ideologia normativa e comunità dei giudici. Un realismo – a differenza di quello di Ørsted di tanto voluto di quanto difficile per gli assunti epistemologici – rischioso per le contiguità con le prospettive di sociologie formatesi anch’esse nell’ambiente scandinavo e teso a preservare seppure in un quadro emotivistico la irriducibilità del normativo. Nel ’34 già s’annunciava al di là del confine danese il tiranno e la fragilità di Weimar era per tutto il mondo liberal-democratico europeo evidente. Con la fine della guerra opzioni totalitarie che erano sembrate più lontane si erano fatte imminenti anche all’interno della piccola comunità danese. Ross è sul fronte della democrazia. Ross, a dispetto dei fallimenti e consapevole delle inquietudini è da subito fermamente per la democrazia: democrazia come valore, un valore (kulturtradition) assunto come peculiare nelle tradizioni del Nord, e come procedura giuridicamente regolata per la istituzione e la gestione del potere e dei suoi atti deliberativi. Custodi dell’istanza democratica, ossia di quanto vi sta implicito – individuo e la sua libertà – avranno da essere nel disegno rossiano i giudici e il loro sentire e agire comune. Dopo e contro Ross nelle opzioni epistemologiche e nei disegni di primazia – a parte l’assunto più o meno sincero di un recupero della tradizione ørstediana – entro il giuridico, ed anzi, più ancora, entro il sociale: Stig Jørgensen (1927-2015) con la sua via ermeneutica; Preben Stuer Lauridsen (1940-2013) con la sua opzione coerentista quineana; David Roland Doublet (1954-2000), peculiarmente a cavallo tra ermeneutica e funzionalismo. Di questi tre Doublet non è danese ma da norvegese si lascia agevolmente iscrivere anche per la continuità tematica e problematica entro un quadro della cultura danese. Che cosa unisce Ross ai tre contraddittori che lo hanno seguito entro la prospettiva di studio che ci siamo assegnati? C’è un tratto peculiare. I nostri giuristi e filosofi del diritto a cominciare da Ross, scienziati sociali, nel mentre non hanno più motivo – è passato un secolo, e che secolo! – di guardare al sociale in termini e secondo i modi di una comunità pensano decisamente, gli uni e gli altri, che la custodia e l’amministrazione del normativo non possa non aver luogo che nei modi propri di una comunità: per Ross la comunità di giudici, per Jørgensen la comunità degli interpreti, per Lauridsen la comunità dei legal professionals, per Doublet la comunità giuridica comunicativa. Ross aveva di certo vissuto prima, durante e dopo la guerra il dramma della libertà. La libertà è un bene istituzionalmente e costituzionalmente acquisito nelle realtà politiche dell’Europa continentale del dopoguerra. È probabilmente questa la ragione per la quale non si ritrovano nelle pagine d’un Jørgensen, d’un Lauridsen, d’un Doublet particolari preoccupazioni quanto alla democrazia e come valore e come procedura. Non da meno essi si vogliono scienziati sociali, ma nell’universalismo delle idee giuridiche di Jørgensen, nell’unità e sostanziale identità di scienza e politica del diritto di Lauridsen, nel modello funzionalistico di Doublet più che il valore e il valere dell’individuo viene al primo piano il valore e il valere d’un sapere giuridico che si autogiustifica ancorandosi al più alla kulturtradition di matrice rossiana. Le due parti del volume come questa introduzione sta mostrando affrontano e discutono pagine del pensiero politico, filosofico e giuridico danese che sono tra di loro in tutta evidenza distanti e lontane. Ma il tema che le tiene assieme e le fa parti di un discorso unitario sta nella permanenza e ricorrenza di comunità nel suo diverso star nel gioco di democrazia e diritto, come se, almeno entro il sentire filosofico-giuridico danese, il depotenziamento di modelli comunitari nelle strutture sociali esigesse – quasi in funzione di garanzia e stabilità – una compensazione nei modi comunitari del conoscere e dell’agire di quanti ne sanno di diritto.
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