La riflessione dello studioso tedesco, tra i primi anni ’60 e i primi anni ’70, è contraddistinta dal problema del senso e dall’utilità delle scienze sociali in relazione agli “interessi della conoscenza” – cognitivo-strumentali, ermeneutici ed emancipativi – in una prospettiva che ridiscuteva il rapporto problematico tra spiegare e intendere non solo sui piani metodologici degli strumenti di indagine ed epistemologici delle condizioni e dei limiti della conoscenza ma anche rispetto alle funzioni del sapere. A seconda del soggetto cui è diretta l’attività intellettuale, si può distinguere un compito di “tecnologia sociale” e un compito di “chiarificazione etica” e di “emancipazione sociale”. Si può operare, infatti, al servizio di coloro che assumono decisioni nei sottosistemi economici e amministrativi favorendo la loro “razionalizzazione strumentale e strategica” di apparati oppure ci si può proporre come mediatori nella sfera pubblica di discorsi etici di autochiarificazione, e perfino fautori di un “controdiscorso” sulla “falsa coscienza” di certe credenze prevalenti, al punto di autodenunciarsi come ideologia. Definita la “ragione pratica” della teoria critica Habermas ne riconosce il limite ultimo di fronte al senso enigmatico di una vita che sfugge alla disponibilità del nostro sapere umano. Il «compito di mantenere aperto lo spazio di azione di un contromovimento» assume qui un senso finora poco approfondito dagli studiosi. Avanzo questa proposta di lettura attraverso un esame del “contenuto utopico” che, a partire dalla frequentazione dei testi di Benjamin, Adorno e altri, Habermas eredita dalla riflessione dell’estetica tedesca. Qui, la problematizzazione del rapporto tra religione e filosofia si sovrappone alla sua convinzione che il “contenuto esplosivo dell’extraquotidiano” si ritrovi “deflazionato” nell’arte.

Teoria sociale e prassi di vita

CORCHIA LUCA
2010-01-01

Abstract

La riflessione dello studioso tedesco, tra i primi anni ’60 e i primi anni ’70, è contraddistinta dal problema del senso e dall’utilità delle scienze sociali in relazione agli “interessi della conoscenza” – cognitivo-strumentali, ermeneutici ed emancipativi – in una prospettiva che ridiscuteva il rapporto problematico tra spiegare e intendere non solo sui piani metodologici degli strumenti di indagine ed epistemologici delle condizioni e dei limiti della conoscenza ma anche rispetto alle funzioni del sapere. A seconda del soggetto cui è diretta l’attività intellettuale, si può distinguere un compito di “tecnologia sociale” e un compito di “chiarificazione etica” e di “emancipazione sociale”. Si può operare, infatti, al servizio di coloro che assumono decisioni nei sottosistemi economici e amministrativi favorendo la loro “razionalizzazione strumentale e strategica” di apparati oppure ci si può proporre come mediatori nella sfera pubblica di discorsi etici di autochiarificazione, e perfino fautori di un “controdiscorso” sulla “falsa coscienza” di certe credenze prevalenti, al punto di autodenunciarsi come ideologia. Definita la “ragione pratica” della teoria critica Habermas ne riconosce il limite ultimo di fronte al senso enigmatico di una vita che sfugge alla disponibilità del nostro sapere umano. Il «compito di mantenere aperto lo spazio di azione di un contromovimento» assume qui un senso finora poco approfondito dagli studiosi. Avanzo questa proposta di lettura attraverso un esame del “contenuto utopico” che, a partire dalla frequentazione dei testi di Benjamin, Adorno e altri, Habermas eredita dalla riflessione dell’estetica tedesca. Qui, la problematizzazione del rapporto tra religione e filosofia si sovrappone alla sua convinzione che il “contenuto esplosivo dell’extraquotidiano” si ritrovi “deflazionato” nell’arte.
2010
978-884671933-1
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