“Sopra le ruine del Tempio d’Ercole … ergesi la nostra basilica di S. Lorenzo” così Crocchiante, mettendo in successione ideale il più importante santuario pagano con la cattedrale cristiana, iniziava nel 1726 la sua Istoria delle chiese di Tivoli. Sono queste d’altronde, grandezza e continuità, le coordinate entro cui si costruisce fin dal medioevo l’identità di una città che i molti miti di fondazione accreditarono come più antica di Roma ed estremamente precoce fu anche la costruzione dell’immagine del suo contesto ambientale quale locus amoenus. Natura e artificio, città e paesaggio circostante si fusero così nella villa del cardinal Ippolito d’Este e poi in quella di papa Gregorio XVI in una visione sincretica che il Grand Tour rese celebre e internazionale e che tra sublime e pittoresco integrava antichità classica e medioevo nei fondali di scene sempre più di genere. Un immaginario idilliaco che, nonostante la precoce industrializzazione favorita proprio dagli elementi naturali, resistette fino verso la metà del Novecento, quando le devastazioni della seconda guerra mondiale segnarono una cesura irrisolta. Restituite le celebri ville a flussi turistici sempre più di massa, il centro storico rimase invece lacerato nella sua trama edilizia e relegato ad ambiti di degrado. Eppure è qui che Tivoli ha cristallizzato nel proprio tessuto urbano lo spazio di una memoria storica estremamente densa e stratificata, memoria che costituisce un palinsesto eccezionale e al cui interno l’età medievale è una fonte complessa da analizzare. Per questo motivo lo studio della committenza dell’arte monumentale tiburtina non può corrispondere a una dissezione cronologica delle emergenze storico-artistiche. Artisti e committenti a Tivoli devono inevitabilmente essersi confrontati con ulteriori e precedenti stratificazioni culturali, dunque con l’imperiosità dell’Antico, con il contesto ambientale in cui si colloca l’abitato, con la numinosità del territorio, con la costruzione diacronica di un’identità tiburtina: quella politica; quella urbanistica e più ampiamente cittadina, che richiama neanche troppo implicitamente il modello di Roma. La storiografia da tempo si misura con questi temi, evidenziandone i riverberi nella topografia, nell’edilizia civile e religiosa, nelle liturgie itineranti, nella strutturazione sociale della comunità. È rimasto invece in ombra il contributo delle arti figurative che esordiscono nel c.d. Tempio della Tosse, segnando la trasformazione in senso cristiano di un monumento tardoantico. Anche il nuovo duomo romanico sembra d’altronde avere come fulcro un’immagine, il trittico del Salvatore, che divenne anche palladio della città, protetta da una classe equestre che probabilmente soddisfa le proprie esigenze di autorappresentazione a Santo Stefano ai Ferri. La straordinaria decorazione di San Silvestro, forse replicata anche a San Pietro, si pone come epitome visiva di una politica in bilico tra fedeltà al papato e aspirazioni autonomistiche, riposte nel ripetuto posizionamento del Comune in campo ghibellino. Di nuovo il rapporto con Roma, con i suoi culti e i suoi santuari, sembra essere la chiave di lettura per il rinnovamento pittorico di Santa Maria Maggiore, che implicò anche l’immagine della Madonna advocata, mentre il ciclo perduto di palazzo Colonna e quello conservato nella cappella Pacifici mostrano la vitalità e l’originalità del quadro trecentesco. Ma questi sono solo i casi più noti, intorno a cui ruotano frammenti di decorazione murale, tavole, miniature che disegnano un paesaggio artistico estremamente significativo ed originale per la posizione liminare della città tra Patrimonium e Regno, collegati proprio da quella via Tiburtina Valeria che ne attraversa il tessuto urbano, lambendone le principali emergenze.
Pittura medievale a Tivoli
gaetano curzi;chiara paniccia;alessandro tomei
2022-01-01
Abstract
“Sopra le ruine del Tempio d’Ercole … ergesi la nostra basilica di S. Lorenzo” così Crocchiante, mettendo in successione ideale il più importante santuario pagano con la cattedrale cristiana, iniziava nel 1726 la sua Istoria delle chiese di Tivoli. Sono queste d’altronde, grandezza e continuità, le coordinate entro cui si costruisce fin dal medioevo l’identità di una città che i molti miti di fondazione accreditarono come più antica di Roma ed estremamente precoce fu anche la costruzione dell’immagine del suo contesto ambientale quale locus amoenus. Natura e artificio, città e paesaggio circostante si fusero così nella villa del cardinal Ippolito d’Este e poi in quella di papa Gregorio XVI in una visione sincretica che il Grand Tour rese celebre e internazionale e che tra sublime e pittoresco integrava antichità classica e medioevo nei fondali di scene sempre più di genere. Un immaginario idilliaco che, nonostante la precoce industrializzazione favorita proprio dagli elementi naturali, resistette fino verso la metà del Novecento, quando le devastazioni della seconda guerra mondiale segnarono una cesura irrisolta. Restituite le celebri ville a flussi turistici sempre più di massa, il centro storico rimase invece lacerato nella sua trama edilizia e relegato ad ambiti di degrado. Eppure è qui che Tivoli ha cristallizzato nel proprio tessuto urbano lo spazio di una memoria storica estremamente densa e stratificata, memoria che costituisce un palinsesto eccezionale e al cui interno l’età medievale è una fonte complessa da analizzare. Per questo motivo lo studio della committenza dell’arte monumentale tiburtina non può corrispondere a una dissezione cronologica delle emergenze storico-artistiche. Artisti e committenti a Tivoli devono inevitabilmente essersi confrontati con ulteriori e precedenti stratificazioni culturali, dunque con l’imperiosità dell’Antico, con il contesto ambientale in cui si colloca l’abitato, con la numinosità del territorio, con la costruzione diacronica di un’identità tiburtina: quella politica; quella urbanistica e più ampiamente cittadina, che richiama neanche troppo implicitamente il modello di Roma. La storiografia da tempo si misura con questi temi, evidenziandone i riverberi nella topografia, nell’edilizia civile e religiosa, nelle liturgie itineranti, nella strutturazione sociale della comunità. È rimasto invece in ombra il contributo delle arti figurative che esordiscono nel c.d. Tempio della Tosse, segnando la trasformazione in senso cristiano di un monumento tardoantico. Anche il nuovo duomo romanico sembra d’altronde avere come fulcro un’immagine, il trittico del Salvatore, che divenne anche palladio della città, protetta da una classe equestre che probabilmente soddisfa le proprie esigenze di autorappresentazione a Santo Stefano ai Ferri. La straordinaria decorazione di San Silvestro, forse replicata anche a San Pietro, si pone come epitome visiva di una politica in bilico tra fedeltà al papato e aspirazioni autonomistiche, riposte nel ripetuto posizionamento del Comune in campo ghibellino. Di nuovo il rapporto con Roma, con i suoi culti e i suoi santuari, sembra essere la chiave di lettura per il rinnovamento pittorico di Santa Maria Maggiore, che implicò anche l’immagine della Madonna advocata, mentre il ciclo perduto di palazzo Colonna e quello conservato nella cappella Pacifici mostrano la vitalità e l’originalità del quadro trecentesco. Ma questi sono solo i casi più noti, intorno a cui ruotano frammenti di decorazione murale, tavole, miniature che disegnano un paesaggio artistico estremamente significativo ed originale per la posizione liminare della città tra Patrimonium e Regno, collegati proprio da quella via Tiburtina Valeria che ne attraversa il tessuto urbano, lambendone le principali emergenze.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.