D’Annunzio sa bene che il leader deve ammaliare la folla, dominarla e sfruttarla ai propri fini di conquista: da questo punto di vista è pienamente allineato alle teorie sociologiche non solo di Le Bon, ma anche di Scipio Sighele, che sempre in quegli anni viene elaborando una teoria sociologica volta a studiare la fenomenologia comportamentale che caratterizza la folla, vista come «un aggregato di uomini per eccellenza eterogeneo, giacché è composto d’individui d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni classe e condizione sociale, d’ogni moralità, d’ogni coltura, e per eccellenza inorganico giacché si forma senza precedente accordo, d’improvviso, istantaneamente». Tutto questo d’Annunzio lo sa molto bene, non fosse altro per il lungo apprendistato giornalistico che lo ha posto a stretto contatto con l’intellighentia della Roma bizantina: così ha potuto conoscere e studiare gli strati più diversi e compositi della società di fine Ottocento, registrando i mutamenti socioculturali della nuova Roma Capitale d’Italia. Nonostante il fastidio per le pose politiche dannunziane, Pascoli non si esime dal confronto a distanza: lo fa pochi giorni dopo la pubblicazione del Discorso della siepe dannunziano sulle colonne della «Tribuna», con una lettera aperta allo stesso giornale, intitolata a sua volta La siepe (30 agosto 1897). Non a caso è dedicata a Gabriele d’Annunzio: prendendo spunto dalla lirica omonima dei Poemetti, il poeta ingaggia un dialogo a distanza con «il fratello minore e maggiore», tutto giocato sull’immagine della siepe: in d’Annunzio essa svolge la funzione politica di garantire la proprietà privata, mentre in Pascoli è chiamata a delimitare la sfera degli affetti e dell’intimità. Il riferimento alla siepe assume in entrambi riflessi sociologici inequivocabili, che riflettono le diverse ideologie dei due scrittori. Separati ma accomunati dal mito decadente della siepe, posta lì a separare due esistenze spese nella ricerca del limite espressivo della parola.

Per un'interpretazione della società di massa: Pascoli, d'Annunzio e lo "sguardo della folla"

LOMBARDINILO, ANDREA
2013-01-01

Abstract

D’Annunzio sa bene che il leader deve ammaliare la folla, dominarla e sfruttarla ai propri fini di conquista: da questo punto di vista è pienamente allineato alle teorie sociologiche non solo di Le Bon, ma anche di Scipio Sighele, che sempre in quegli anni viene elaborando una teoria sociologica volta a studiare la fenomenologia comportamentale che caratterizza la folla, vista come «un aggregato di uomini per eccellenza eterogeneo, giacché è composto d’individui d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni classe e condizione sociale, d’ogni moralità, d’ogni coltura, e per eccellenza inorganico giacché si forma senza precedente accordo, d’improvviso, istantaneamente». Tutto questo d’Annunzio lo sa molto bene, non fosse altro per il lungo apprendistato giornalistico che lo ha posto a stretto contatto con l’intellighentia della Roma bizantina: così ha potuto conoscere e studiare gli strati più diversi e compositi della società di fine Ottocento, registrando i mutamenti socioculturali della nuova Roma Capitale d’Italia. Nonostante il fastidio per le pose politiche dannunziane, Pascoli non si esime dal confronto a distanza: lo fa pochi giorni dopo la pubblicazione del Discorso della siepe dannunziano sulle colonne della «Tribuna», con una lettera aperta allo stesso giornale, intitolata a sua volta La siepe (30 agosto 1897). Non a caso è dedicata a Gabriele d’Annunzio: prendendo spunto dalla lirica omonima dei Poemetti, il poeta ingaggia un dialogo a distanza con «il fratello minore e maggiore», tutto giocato sull’immagine della siepe: in d’Annunzio essa svolge la funzione politica di garantire la proprietà privata, mentre in Pascoli è chiamata a delimitare la sfera degli affetti e dell’intimità. Il riferimento alla siepe assume in entrambi riflessi sociologici inequivocabili, che riflettono le diverse ideologie dei due scrittori. Separati ma accomunati dal mito decadente della siepe, posta lì a separare due esistenze spese nella ricerca del limite espressivo della parola.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11564/455083
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