In modo conciso e per così dire brutale, la conclusione potrebbe essere così sintetizzata: l’Impero carolingio crollò per un difetto di comunicazione. Il che potrebbe forse equivalere ad affermare che, qualora le comunicazioni fossero state se non perfette quanto meno prive di soluzioni di continuità, l’impero non sarebbe crollato? Ai lettori la possibilità di soppesare e di rispondere a loro modo alla questione. (...) Alcuni elementi relativi ai presupposti fondanti la complessiva metodologia d’approccio possono essere rinvenuti nelle ultime pagine dell’introduzione. Però, qualora il lettore desiderasse un confronto più serrato con i concetti connessi allo studio delle “comunicazioni” e della storiografia che fino ad ora di tale argomento si è occupata, resterebbe un po’ deluso: pochi e sparuti gli accenni presenti in Quelques repères (pp. 18-21). Vi è da aggiungere che piuttosto sbrigativamente risulta giustificato l’uso di alcuni sostantivi ed aggettivi piuttosto spinosi per i medievisti, quali ad esempio “politica” e “politico”, “Stato”, “principe” e “potere centrale”: nel paragrafo Les mots (pp. 21-22) ci si libera da ogni problema in una ventina di righe, che si concludono sottolineando la preferenza per l’espressione « communication politique », in quanto il temine “diplomazia” designerebbe delle prassi estranee alla società carolingia. Certo è che, per chi ha apprezzato la lettura di un fondamentale libro di Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, come pure le riflessioni aggiuntive che questo stesso studioso ha pubblicato in un volume sulla civiltà comunale italiana, qualche perplessità resta. Un ultimo spunto di riflessione. Per formularlo, muoviamo da un’ipotesi di Martin Gravel: « Osons formuler l’hypothèse que les Carolingiens ont rêvé d’un gouvernement plus centralisateur, plus engagé sur l’ensemble de son empire que ne l’avaient été les grands États occidentaux depuis la République romaine. Constantin et Théodoric le Grand – peut-être même Clovis – avaient de meilleurs outils administratifs à leur disposition. Une étude comparative les montrerait peut-être moins avides de contrôle que Charlemagne et son successeur » (p. 269). Che quest’approccio legato alla storia delle comunicazioni e delle relazioni tra centro e periferia sia in grado di rimettere in discussione, seppur da un altro punto di vista, che l’impero carolingio sia stato connotato da una struttura piramidale passibile di essere intesa come centralizzata e quasi statuale? Ci si limita a formulare la domanda, e nel contempo a rinviare ad un libro piuttosto recente, nel quale vari studiosi hanno riflettuto sulla necessaria revisione storiografica di cui è stato oggetto il “feudalesimo” quanto a capacità di produrre forme statualmente verticistiche dopo la pubblicazione del volume di Susan Reynolds. A parte le perplessità, è ad ogni modo assolutamente esatto affermare che, al di là di ogni retorica di genere, la thèse di Martin Gravel è stimolante – il rilievo e il valore delle pagine in cui viene sottoposto a disamina il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche, e della loro funzionale gerarchizzazione, per la tenuta del potere imperiale è notevole – oltre che senz’altro degna di considerazione, come del resto si spera siano riuscite a mostrare le riflessioni offerte fino ad ora.

rec. a MARTIN GRAVEL, Distances, rencontres, communications. Réaliser l’Empire sous Charlemagne et Louis le Pieux, Turnhout, Brepols, 2012, pp. 467 (Collection Haut Moyen Âge dirigée par Régine Le Jan, 15)

PACIOCCO, Roberto
2014-01-01

Abstract

In modo conciso e per così dire brutale, la conclusione potrebbe essere così sintetizzata: l’Impero carolingio crollò per un difetto di comunicazione. Il che potrebbe forse equivalere ad affermare che, qualora le comunicazioni fossero state se non perfette quanto meno prive di soluzioni di continuità, l’impero non sarebbe crollato? Ai lettori la possibilità di soppesare e di rispondere a loro modo alla questione. (...) Alcuni elementi relativi ai presupposti fondanti la complessiva metodologia d’approccio possono essere rinvenuti nelle ultime pagine dell’introduzione. Però, qualora il lettore desiderasse un confronto più serrato con i concetti connessi allo studio delle “comunicazioni” e della storiografia che fino ad ora di tale argomento si è occupata, resterebbe un po’ deluso: pochi e sparuti gli accenni presenti in Quelques repères (pp. 18-21). Vi è da aggiungere che piuttosto sbrigativamente risulta giustificato l’uso di alcuni sostantivi ed aggettivi piuttosto spinosi per i medievisti, quali ad esempio “politica” e “politico”, “Stato”, “principe” e “potere centrale”: nel paragrafo Les mots (pp. 21-22) ci si libera da ogni problema in una ventina di righe, che si concludono sottolineando la preferenza per l’espressione « communication politique », in quanto il temine “diplomazia” designerebbe delle prassi estranee alla società carolingia. Certo è che, per chi ha apprezzato la lettura di un fondamentale libro di Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, come pure le riflessioni aggiuntive che questo stesso studioso ha pubblicato in un volume sulla civiltà comunale italiana, qualche perplessità resta. Un ultimo spunto di riflessione. Per formularlo, muoviamo da un’ipotesi di Martin Gravel: « Osons formuler l’hypothèse que les Carolingiens ont rêvé d’un gouvernement plus centralisateur, plus engagé sur l’ensemble de son empire que ne l’avaient été les grands États occidentaux depuis la République romaine. Constantin et Théodoric le Grand – peut-être même Clovis – avaient de meilleurs outils administratifs à leur disposition. Une étude comparative les montrerait peut-être moins avides de contrôle que Charlemagne et son successeur » (p. 269). Che quest’approccio legato alla storia delle comunicazioni e delle relazioni tra centro e periferia sia in grado di rimettere in discussione, seppur da un altro punto di vista, che l’impero carolingio sia stato connotato da una struttura piramidale passibile di essere intesa come centralizzata e quasi statuale? Ci si limita a formulare la domanda, e nel contempo a rinviare ad un libro piuttosto recente, nel quale vari studiosi hanno riflettuto sulla necessaria revisione storiografica di cui è stato oggetto il “feudalesimo” quanto a capacità di produrre forme statualmente verticistiche dopo la pubblicazione del volume di Susan Reynolds. A parte le perplessità, è ad ogni modo assolutamente esatto affermare che, al di là di ogni retorica di genere, la thèse di Martin Gravel è stimolante – il rilievo e il valore delle pagine in cui viene sottoposto a disamina il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche, e della loro funzionale gerarchizzazione, per la tenuta del potere imperiale è notevole – oltre che senz’altro degna di considerazione, come del resto si spera siano riuscite a mostrare le riflessioni offerte fino ad ora.
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