Il concetto di città finisce con questa frase: «l’urbe è un nodo nella viabilità universale» (I. Cerdà). Era il 1867 quando Ildefonso Cerdà capì che era necessaria una nuova parola «per indicare quell’insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città» (I. Cerdà). Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra in cui orientamento e delimitazione non sarebbero stati più i caratteri fondativi della città. Ieri un’intuizione, in forte anticipo rispetto ai tempi; oggi una consapevolezza diffusa: «la città è un oggetto anacronistico appartenente al passato; il processo attuale di urbanizzazione ci coinvolge nel posturbano» (F. Choay). D’altro canto, anche il solo immaginare una realtà formalmente compiuta all’interno della quale ogni parte sia proporzionata all’intero è diventata impresa quanto mai ardua. La città si è radicalmente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo, ormai, le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità ma dispersione e frammentazione. Il territorio appare come un raggruppamento di multiformi espressioni costruttive; di trame filamentose che si addensano ora in piccoli grumi edilizi, ora in estensioni senza fine. E senza finalità. «Per molti versi, quella che abbiamo vissuto è stata la storia di una progressiva saturazione dello spazio terrestre» (J.L. Nancy), di un’occupazione del suolo che ha superato ogni frontiera, di una dilatazione dell’urbano verso ogni dove. Questo rivela come città sia una parola inadeguata alla realtà contemporanea; un vocabolo che abita lo spazio dei dizionari; un termine che ognuno usa come preferisce e racconta come vuole. Città è una parola privata del suo referente diretto e quindi senza realtà. Un invito implicito all’inseguimento di una delle sue possibili accezioni. Non all’interpretazione. Ed è proprio questo il motivo per cui anche la disciplina urbanistica non può dirsi esente da quella «peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze» (I. Calvino).

Città con fine

CLEMENTE, Antonio Alberto
2008-01-01

Abstract

Il concetto di città finisce con questa frase: «l’urbe è un nodo nella viabilità universale» (I. Cerdà). Era il 1867 quando Ildefonso Cerdà capì che era necessaria una nuova parola «per indicare quell’insieme di fatti diversi ed eterogenei chiamato città» (I. Cerdà). Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra in cui orientamento e delimitazione non sarebbero stati più i caratteri fondativi della città. Ieri un’intuizione, in forte anticipo rispetto ai tempi; oggi una consapevolezza diffusa: «la città è un oggetto anacronistico appartenente al passato; il processo attuale di urbanizzazione ci coinvolge nel posturbano» (F. Choay). D’altro canto, anche il solo immaginare una realtà formalmente compiuta all’interno della quale ogni parte sia proporzionata all’intero è diventata impresa quanto mai ardua. La città si è radicalmente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo, ormai, le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità ma dispersione e frammentazione. Il territorio appare come un raggruppamento di multiformi espressioni costruttive; di trame filamentose che si addensano ora in piccoli grumi edilizi, ora in estensioni senza fine. E senza finalità. «Per molti versi, quella che abbiamo vissuto è stata la storia di una progressiva saturazione dello spazio terrestre» (J.L. Nancy), di un’occupazione del suolo che ha superato ogni frontiera, di una dilatazione dell’urbano verso ogni dove. Questo rivela come città sia una parola inadeguata alla realtà contemporanea; un vocabolo che abita lo spazio dei dizionari; un termine che ognuno usa come preferisce e racconta come vuole. Città è una parola privata del suo referente diretto e quindi senza realtà. Un invito implicito all’inseguimento di una delle sue possibili accezioni. Non all’interpretazione. Ed è proprio questo il motivo per cui anche la disciplina urbanistica non può dirsi esente da quella «peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze» (I. Calvino).
2008
978-88-207-4247-8
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