«Gregor!», chiamò una voce (quella della mamma), «sono le sette meno un quarto! Non volevi partire?». Oh quella voce soave! Sentendo la propria in risposta, Gregor fu preso dal terrore: era senza dubbio la sua voce di sempre, ma vi si mescolava un incontenibile e penoso pigolìo che pareva salire dal basso e che lasciava uscir chiare le parole solo al primo momento, ma poi nella risonanza le distorceva talmente da lasciare l’impressione di non aver udito bene in chi le ascoltava» (Franz Kafka). Il primo segno di una metamorfosi risiede nel linguaggio; abita le parole rendendole afone; appare evidente quando i termini risultano nuda esercitazione sonora. Ildefonso Cerdà ne era convinto quando, nel 1867, pubblicò la Teoría General de la Urbanización. Questo l’incipit: «inizierò il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine. Poiché tutto era nuovo, ho dovuto cercare e inventare parole nuove per esprimere idee nuove, la cui spiegazione non si trovava in alcun lessico» (Ildefonso Cerdá ). L’atto di fondazione della disciplina urbanistica non è quindi segnato da programmi costruttivi, planimetrie, sezioni stradali, ipotesi progettuali ma da «parole nuove per esprimere idee nuove». Sul piano teorico questo significa che qualsiasi evoluzione del sapere deve passare, necessariamente, attraverso la trasformazione del lessico. Dopo 150 anni, tale consapevolezza è quasi sconosciuta in ambito progettuale, nonostante la città contemporanea si trovi di fronte a un nuovo mutamento «del quadro intellettuale, del vocabolario, e dei più intimi riferimenti delle nostre professioni» (Rem Koolhaas). Probabilmente occorre uno sforzo analogo a quello compiuto da Cerdà.

Il disordine del discorso urbanistico

CLEMENTE, Antonio Alberto
2017-01-01

Abstract

«Gregor!», chiamò una voce (quella della mamma), «sono le sette meno un quarto! Non volevi partire?». Oh quella voce soave! Sentendo la propria in risposta, Gregor fu preso dal terrore: era senza dubbio la sua voce di sempre, ma vi si mescolava un incontenibile e penoso pigolìo che pareva salire dal basso e che lasciava uscir chiare le parole solo al primo momento, ma poi nella risonanza le distorceva talmente da lasciare l’impressione di non aver udito bene in chi le ascoltava» (Franz Kafka). Il primo segno di una metamorfosi risiede nel linguaggio; abita le parole rendendole afone; appare evidente quando i termini risultano nuda esercitazione sonora. Ildefonso Cerdà ne era convinto quando, nel 1867, pubblicò la Teoría General de la Urbanización. Questo l’incipit: «inizierò il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine. Poiché tutto era nuovo, ho dovuto cercare e inventare parole nuove per esprimere idee nuove, la cui spiegazione non si trovava in alcun lessico» (Ildefonso Cerdá ). L’atto di fondazione della disciplina urbanistica non è quindi segnato da programmi costruttivi, planimetrie, sezioni stradali, ipotesi progettuali ma da «parole nuove per esprimere idee nuove». Sul piano teorico questo significa che qualsiasi evoluzione del sapere deve passare, necessariamente, attraverso la trasformazione del lessico. Dopo 150 anni, tale consapevolezza è quasi sconosciuta in ambito progettuale, nonostante la città contemporanea si trovi di fronte a un nuovo mutamento «del quadro intellettuale, del vocabolario, e dei più intimi riferimenti delle nostre professioni» (Rem Koolhaas). Probabilmente occorre uno sforzo analogo a quello compiuto da Cerdà.
2017
9788896338889
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