L’atto di fondazione della disciplina urbanistica non è segnato da programmi costruttivi, planimetrie, sezioni stradali, ipotesi progettuali ma, come ha sostenuto Ildefonso Cerdà, da «parole nuove per esprimere idee nuove». Sul piano teorico questo significa che qualsiasi evoluzione del sapere deve passare, necessariamente, attraverso la trasformazione del lessico. Dopo 150 anni, tale consapevolezza è quasi sconosciuta in ambito progettuale, nonostante la città contemporanea si trovi di fronte a un nuovo mutamento «del quadro intellettuale, del vocabolario, e dei più intimi riferimenti delle nostre professioni» (Rem Koolhaas). Probabilmente occorre uno sforzo analogo a quello compiuto da Cerdà. Molteplici gli indizi. Tre i principali. In primo luogo per il deteriorarsi dei termini. Ci sono parole che hanno contrassegnato un’epoca. Piano Regolatore Generale, Standard, Zonizzazione… identificavano valori condivisi, erano riferimenti culturali precisi sul modo di intendere il fenomeno urbano. Un itinerario culturale consolidato, anche nella gestione degli interventi sul territorio, che è stato abbandonato. Senza essere sostituito. Vi è poi «un generale “ritirarsi della parola”» (George Steiner). E non poteva essere altrimenti visto che «oggi la maggior parte delle opere visive cercano soltanto di far colpo su di voi. Esse coltivano l’effetto retinico piuttosto che quello mentale. Esse danno da vedere invece di far vedere» (Bernard Noël). In ultimo, è accaduto che tra i rituali del discorso urbanistico e la realtà del territorio si è creato un vero e proprio baratro per l’inaderenza di un «linguaggio compatto, profondo, pieno di segreti, offerto come sogno e allo stesso tempo come minaccia» (Roland Barthes ). E quando il patrimonio lessicale di una disciplina si svuota di senso, decade l’autorità di chi parla e la città, con i suoi problemi e con le sue opportunità, resta sepolta sotto la sovrabbondanza di termini inefficaci. Ripartire da «parole nuove» è solo un’ipotesi di lavoro, una condizione anteriore alla conoscenza, suscettibile di modificazioni in itinere e di spostamenti laterali. È un’impresa difficile che richiede cautela, molto lavoro di approfondimento e l’assunzione di molteplici punti di vista. Occorre immaginare quali possano essere i campi contigui più fecondi per le discipline territoriali, quali le contaminazioni più vantaggiose, quali le corrispondenze più fertili.

Disordine del discorso urbanistico

Antonio Alberto Clemente
2016-01-01

Abstract

L’atto di fondazione della disciplina urbanistica non è segnato da programmi costruttivi, planimetrie, sezioni stradali, ipotesi progettuali ma, come ha sostenuto Ildefonso Cerdà, da «parole nuove per esprimere idee nuove». Sul piano teorico questo significa che qualsiasi evoluzione del sapere deve passare, necessariamente, attraverso la trasformazione del lessico. Dopo 150 anni, tale consapevolezza è quasi sconosciuta in ambito progettuale, nonostante la città contemporanea si trovi di fronte a un nuovo mutamento «del quadro intellettuale, del vocabolario, e dei più intimi riferimenti delle nostre professioni» (Rem Koolhaas). Probabilmente occorre uno sforzo analogo a quello compiuto da Cerdà. Molteplici gli indizi. Tre i principali. In primo luogo per il deteriorarsi dei termini. Ci sono parole che hanno contrassegnato un’epoca. Piano Regolatore Generale, Standard, Zonizzazione… identificavano valori condivisi, erano riferimenti culturali precisi sul modo di intendere il fenomeno urbano. Un itinerario culturale consolidato, anche nella gestione degli interventi sul territorio, che è stato abbandonato. Senza essere sostituito. Vi è poi «un generale “ritirarsi della parola”» (George Steiner). E non poteva essere altrimenti visto che «oggi la maggior parte delle opere visive cercano soltanto di far colpo su di voi. Esse coltivano l’effetto retinico piuttosto che quello mentale. Esse danno da vedere invece di far vedere» (Bernard Noël). In ultimo, è accaduto che tra i rituali del discorso urbanistico e la realtà del territorio si è creato un vero e proprio baratro per l’inaderenza di un «linguaggio compatto, profondo, pieno di segreti, offerto come sogno e allo stesso tempo come minaccia» (Roland Barthes ). E quando il patrimonio lessicale di una disciplina si svuota di senso, decade l’autorità di chi parla e la città, con i suoi problemi e con le sue opportunità, resta sepolta sotto la sovrabbondanza di termini inefficaci. Ripartire da «parole nuove» è solo un’ipotesi di lavoro, una condizione anteriore alla conoscenza, suscettibile di modificazioni in itinere e di spostamenti laterali. È un’impresa difficile che richiede cautela, molto lavoro di approfondimento e l’assunzione di molteplici punti di vista. Occorre immaginare quali possano essere i campi contigui più fecondi per le discipline territoriali, quali le contaminazioni più vantaggiose, quali le corrispondenze più fertili.
2016
9788894084528
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